Un pensiero più esigente per un’Europa popolare

FUTURO DELL’EUROPA. Abbiamo bisogno disperato di un pensiero critico sull’Europa. Proprio adesso, sì, nonostante le elezioni e la ricorrente coazione a «non parlare male» dell’Europa in prossimità del voto. Troppe volte il pericolo dei nazionalismi ha fatto chiudere gli occhi sulla forma che va prendendo l’integrazione.

Senza considerare che un’Europa «matrigna» ingrassa un sovranismo nazionalista che non è (solo) il frutto di egoismi, ma è anche la risposta sbagliata a una legittima domanda di protezione sociale. Così come, su un piano più generale, il continuo agitare dello spettro del populismo ha finito con l’allontanare dalla dimensione popolare la scena politica, per tenerla al sicuro tra le mani di tecnici considerati meritevoli dell’ennesima delega.

Il pensiero critico sull’Europa non va confuso con lo scetticismo, ma è il coraggio della parresia sull’Europa triste che gli ultimi decenni ci consegnano. Se infatti l’euroscetticismo si scontra con la realtà dell’interdipendenza, tanto che gli stessi sovranisti sono costretti, paradossalmente, a coalizioni europee per contrastare l’Europa, per maturare un pensiero critico urge un’assunzione di consapevolezza. La consapevolezza che nasce dal vedere l’Europa ridotta a oscillare tra la forma del condominio, metafora di una coesistenza subita e ripiegata su egoismi domestici, e la tendenza a funzionare come una macchina cibernetica, intessuta di un’armatura di regole, entro cui si annidano gli automatismi utili a correggere le anomalie che si producono. Si rischia così di completare una federalizzazione tutta condotta dall’alto, fatta di aggiustamenti (o peggio di automatismi) tecnici, di procedure burocratiche e standard, rispetto a cui il respiro popolare e democratico è superfluo, se non un elemento di disturbo. Alla guida di questa Europa, un tecnico inflessibile va benissimo. Ogni qualvolta infatti si approssima un referendum, ma perfino un’elezione, la governance europea entra in fibrillazione, come di fronte a una minaccia. Sappiamo sin troppo bene che questa pretesa neutralità tecnico-finanziaria è in verità una facciata spesso ingannevole che occulta scelte politiche. Si sperava che la lezione tragica della pandemia servisse ad aprire gli occhi su un destino comune e sulla necessità di una solidarietà europea tra popoli. E invece sembra che la si voglia archiviare, come fosse una parentesi, senza farsene rinnovare.

Molte le cause di questa involuzione. L’allargamento a Est, in sé giusto ma mal gestito, ha bloccato l’ampliamento dell’integrazione europea nella direzione della protezione sociale (lavoro, sanità, povertà), perché i Paesi dell’Est sono bruscamente transitati dal socialismo al liberismo. La stessa carta dei diritti dell’Unione Europea, che pure comprende i diritti sociali, è rimasta così disinnescata. La regola dell’unanimità funziona infatti da blocco inibitorio per estendere le competenze europee. Sul piano internazionale, l’Europa è ricascata nella trappola della divisione bellicista per blocchi geopolitici, condannandosi così alla sua irrilevanza. Essa è infatti avvertita, e non a torto, come una costola della Nato e pertanto non le viene riconosciuto quel ruolo di mediazione che pure sarebbe iscritto nella sua identità. Non sono solo i meccanismi istituzionali a inaridire il progetto europeo, ma anche le soggettività politiche. I partiti politici europei, che dovrebbero essere il veicolo di immagini alternative d’Europa e insieme di un’energia e un’anima popolare, sono deboli accozzaglie di partiti nazionali, a propria volta in persistente crisi di legittimazione. Il dibattito stantio sulle elezioni europee è lo specchio fedele di questa assenza di anima popolare e di speranza. Abbiamo davvero bisogno di un pensiero più esigente sull’Europa. E credo che ne abbia bisogno l’ordine mondiale.

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