Un premio alla storia
e al cuore di Bergamo

Il retaggio dell’educazione cristiana che ha allevato generazioni alla virtù di soccorrere il prossimo. Ma anche, laicamente, la cifra del carattere bergamasco che ci porta a risolvere un problema senza attendere la risposta di altri. Questi due fattori caratterizzano la Bergamasca come una delle patrie del volontariato, se non la patria in proporzione al numero di abitanti. È un’evidenza dettata dai numeri, non da considerazioni autoelogiative che amplificano la realtà. Nella nostra provincia operano 4.768 enti non profit (il 90% sono associazioni) che raccolgono l’impegno di ben 104.356 persone: significa che un nostro concittadino su 10 dedica parte del proprio tempo a dare risposte ai bisogni di chi è in difficoltà e della comunità. Il 61,7% sono uomini, il 41,6% ha tra i 30 e i 54 anni, il 18,75% meno di 30.

Gli enti sono impegnati in diversi ambiti: dal socio-sanitario all’ambiente, dalla cultura all’animazione alla scuola. Ma la radiografia dell’Istat sottostima il fenomeno: non tiene infatti conto delle centinaia di gruppi informali (come quelli missionari o che nascono intorno a necessità specifiche e non si costituiscono in associazioni) e chi presta il proprio tempo per gli altri saltuariamente.

Questi numeri, ma anche la qualità dell’impegno, fregeranno Bergamo del titolo di Capitale italiana del volontariato nel 2022, un riconoscimento al debutto e che non a caso premia la provincia più colpita dal Covid non solo in Italia, con oltre 6 mila morti. Anche nella pandemia infatti c’è stata una mobilitazione ad aiutare chi più era in difficoltà, come gli anziani al chiuso delle loro case. Molte associazioni nel periodo peggiore del 2020 hanno riconvertito le proprie finalità per soccorrere le vittime sociali del coronavirus e nuovi gruppi sono nati, come «BergamoxBergamo» che ha mobilitato 4 mila volontari (molti alla prima esperienza) nella consegna dei pasti e della spesa a chi era isolato. Le biografie delle persone uccise dalla pandemia raccontate dal nostro giornale contengono spesso esperienze di volontariato, semplici militanti o con cariche di vertice, quando non fondatori di associazioni. È la generazione che ha costruito il benessere anche umano della Bergamasca, un capitale di virtù andato perduto, ma che ci ha donato un grande lascito.

In generale si pone un problema di ricambio generazionale pure nei ruoli guida. Ma sono anche altre le sfide per questo mondo così esteso, che opera non solo nella nostra provincia (basti ricordare i soccorsi ai terremotati del Friuli fino a quelli più recenti dell’Abruzzo) ma oltre confine (ha agito nei momenti più tragici della guerra in Bosnia ed è presente soprattutto in Africa e in America Latina. Va rafforzata la collaborazione fra enti: «fare rete» non è più un auspicio da convegni, molti miglioramenti sono stati compiuti ma altri ne restano da fare, di fronte a sfide come le nuove povertà generate dalla pandemia e la questione giovanile.

In un mondo impregnato di derive individualiste e di autoreferenzialità, che monetizza ogni atto, il volontariato resta sovversivo perché si muove in nome della gratuità. È un profondo conoscitore dei territori e anticipa i bisogni di chi li abita. Non è una stampella dello Stato, ma lo Stato deve metterlo nelle condizioni di agire senza troppi lacci. Diffonde una cultura dell’accoglienza spesso salvifica, contrasto alle chiusure che hanno messo radici anche nella Bergamasca. Non è cioè solo un agire in risposta ai problemi, ma un veicolo di virtù che devono essere contagiose. Qualità che abbiamo visto coraggiosamente in azione nel periodo più tragico della pandemia ma che è in opera tutti i giorni.

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