Un problema
dei partiti
La caduta
del ruolo

Piaccia o meno, Berlusconi ha dimostrato ancora una volta di essere crocevia obbligato della politica italiana. I giochi sono stati fermi sino alla vigilia del voto per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, in attesa che Sua Emittenza sciogliesse le riserve sulla sua candidatura alla suprema carica. Sono passati sei lustri da quando, accolto dall’incredulità generale, il patron di Mediaset, tycoon autore di una spericolata ascesa nel mondo che conta e per questo inviso al mainstream economico nazionale, effettuò la sua clamorosa «discesa in campo».

Lo fece in barba a ogni riserva per il conflitto di interessi che il suo ingresso in politica rappresentava. Divenne l’intruso più ingombrante e insieme più divisivo della politica nazionale. D’allora in poi, l’Italia si è disposta in due campi l’un contro l’altro armato: berlusconiani vs anti-berlusconiani.Se si guarda poi la dinamica politica spicca la caduta del ruolo dei partiti. L’affidamento della premiership a un tecnico come l’ex presidente della Bce è stata la confessione della loro impotenza. La disputa al presente sulla sua collocazione (se a Palazzo Chigi o al Quirinale) ne è la ratifica. Del resto, come si dovrebbe interpretare il fuoco di sbarramento oppostogli alla sua salita al Colle più alto di Roma se non come frutto del timore di venire da lui definitivamente commissariati per interposta persona (un nuovo tecnico di sua fiducia) per l’intero settennato, ossia per ben due future legislature?

A più di un quarto secolo di distanza, la scena si è ripetuta. È bastato che il redivivo Cavaliere Nero ventilasse l’idea di candidarsi al Quirinale e di colpo si è riattivata quella feroce divisione tra destra e sinistra che sembrava fortemente attenuata. Tuttavia, non lo ha distolto dall’audace proposito l’essersi intestato una serie di colpe (su tutte, la condanna per evasione fiscale e il mai risolto conflitto d interessi), di falli (l’uscita di scena nel 2011 sull’onda di una crisi del debito sovrano sfuggitagli di mano), di smacchi (la perdita della leadership del centrodestra, la caduta verticale di consenso e di ruolo del suo partito), di impedimenti (a partire dal dato anagrafico, lui ottantacinquenne): insomma, un’infilata di passi falsi e di intralci che avrebbero impedito in qualsiasi altra democrazia minimamente funzionante anche solo di nutrire il proposito di ricoprire la massima carica istituzionale. Non nella nostra. I partiti, tutti i partiti, sono rimasti impietriti. Si sono mostrati incapaci anche solo di abbozzare una controproposta. Pd e M5S hanno alzato bandiera bianca, limitandosi a rifiutare la sua candidatura senza avere la forza di opporgliene una alternativa. Persino i suoi alleati Lega e Fd’I, che pure insieme vantano una forza elettorale sestupla di Fi, si sono astenuti dall’avanzare un loro nome, in attesa reverente di un suo definitivo pronunciamento.

È venuto il momento di chiederci se il leader di Fi sia la malattia o piuttosto il sintomo della malattia che affligge il nostro sistema politico. Se è vero, come noi crediamo, che - Berlusconi o non Berlusconi - la nostra democrazia sia in grave sofferenza, una cura si dovrà pure approntare. Un primo elemento di riflessione al proposito ce lo offre proprio la presente, lunga, sconclusionata battaglia elettorale per il presidente della Repubblica. L’indubitabile declino politico di Berlusconi non gli ha impedito di ergersi a gran mattatore. Una forza ritrovata la sua, figlia del maggior indebolimento degli altri. In un Paese di nani, è pur vero che un uomo di altezza normale si permette di far la figura del gigante.

Che gli attuali partiti siano nani è difficile dubitare. Erano un tempo primattori, sono diventati dei figuranti in cerca d’autore. Incapaci persino di maturare al loro interno un indirizzo condiviso, si muovono alla spicciolata, tanto da far dubitare della loro stessa esistenza. Basti pensare che «il partito» più consistente in parlamento è attualmente il gruppo misto, «il partito dei senza partito», per non dire del M5S: un «non partito», oltre che di nome, ormai anche di fatto.

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