Una giustizia giusta
non può dimenticare

Una giustizia tardiva è una giustizia negata, scriveva Montesquieu. Ha senso veder finire in carcere gente ormai vecchia, stanca, malata per reati commessi cinquant’anni fa? Sì. Sette imputati italiani di atti di terrorismo negli anni ‘70 e ‘80 sono stati arrestati a Parigi su richiesta dell’Italia, mentre altri tre, al momento in cui scriviamo, sono ancora in fuga, braccati dalla polizia francese. Si riaffacciano all’improvviso i nostri anni di piombo, come lo scoppio tardivo di un mortaretto della memoria rimasto inesploso, mentre pensavamo a tutt’altro, alle nostre vite, al lavoro, ai vaccini, a come proteggerci dal Covid. Il corso della giustizia a volte segue sentieri imperscrutabili, è capace di svegliarsi da un lungo sonno dopo decenni, procede come un fiume carsico per sfociare inesorabile quando meno ce l’aspettiamo.

Mercoledì 28 aprile è caduto definitivamente un altro paradosso della storia, la cosiddetta «dottrina Mitterrand», che di dottrina non aveva nulla ma era solo un atto politico. La enunciò lo stesso presidente francese il primo febbraio 1985 al Palais des sports di Rennes, in Bretagna. Il governo francese non avrebbe concesso l’estradizione a tutti coloro che erano accusati di reati politici senza però essersi macchiati di «atti di natura violenta» commettendo un terrorismo «sanguinario, attivo, reale». Il controsenso di quella che è passata alla storia come dottrina è già in queste parole, poiché il terrorismo è quasi sempre un atto di natura violenta, sanguinaria, attiva, reale.

E infatti sotto lo scudo di protezione del governo francese vi furono centinaia di terroristi o ex terroristi, e del mucchio fece parte anche chi aveva una o più condanne all’ergastolo, come Cesare Battisti. Fecero tutti la loro vita di esuli all’ombra dell’Eliseo, vissero, viaggiarono, scrissero, videro scorrere la sabbia del tempo serenamente, andando a fare la spesa o comprando la baguette al mattino nelle boulangeries. Al di là della patina romantica dell’asilo da dare agli esuli, quasi si trattasse dei fratelli Rosselli, le ragioni della politica, gli «arcana imperii» di Mitterrand, uno dei presidenti più misteriosi ed esoterici della storia francese, non sono ancora chiare. Si dice che dietro la sua decisione ci fosse l’umanesimo cristiano e la richiesta di pietà autentica dell’Abbè Pierre. Altri hanno citato la volontà «pacificatrice» e «mediatrice» del partito socialista europeo che anche in Italia con Craxi aveva manifestato un atteggiamento dialogante con i reduci della sinistra extraparlamentare.

Altri ancora hanno giudicato la dottrina funzionale all’utilizzo dei rifugiati da parte dei servizi segreti francesi per avere informazioni e proteggere il Paese da infiltrazioni terroristiche. Mitterrand era sostenuto da molti maitres à penser che vedevano nella mancata estradizione una politica garantista, insinuando che in Italia i rifugiati sarebbero stati sottoposti a una giustizia non conforme a uno Stato di diritto, insomma il solito malcelato senso di superiorità nei confronti di chi il diritto lo aveva inventato. Niente di più falso. Fatto sta che nel 2003 il Consiglio di Stato di Parigi, in occasione dell’estradizione di uno dei latitanti, dichiarò la presunta dottrina Mitterrand priva di qualunque fondamento giuridico.

Il problema resta, ora che i tempi sono cambiati e Macron ha messo in soffitta il metodo del presidente francese le cui spoglie riposano nella sua città natale di Jarnac, in Aquitania. Ha senso la galera mezzo secolo dopo, quando certamente nessuno è quello che era al momento dei fatti? Quando riusciremo mai a chiudere ferite ancora aperte come quella del terrorismo rosso e nero? La pietà e l’umanità che esige il vedere una persona ormai anziana (e malata, come nel caso di Giorgio Pietrostefani, considerato uno dei mandanti dell’omicidio Calabresi) va contemperata dall’esigenza di ottenere giustizia per le vittime di quegli atti, per un dolore che non andrà mai in prescrizione. Oltre che per rispetto di tutti coloro che dopo la condanna accettarono il verdetto.

Uno di questi lo intervistai nel carcere di Pisa il 30 luglio 1997. Mentre Pietrostefani volava a Parigi lui - accusato in giudicato dello stesso reato - entrava in un penitenziario dove vi sarebbe invecchiato. Si chiamava Adriano Sofri. Nella penombra del parlatorio del carcere mi raccontò dell’«altalena tra il distacco e la durezza della segregazione, condizione caratteristica di tutti i carcerati». Chi entra in un penitenziario», mi spiegò, ha immediatamente un gravissimo danno alla vista. «Questa miopia coatta ti costringe a saltare l’ostacolo e a immaginare le cose distanti». Mi raccontò della «reclusione corporale di tipo zoologico», della cella stretta come un cappotto, «chiusa a doppia mandata». Aggiunse che il momento peggiore è la mattina, «quando ci si risveglia e ci si accorge di nuovo di essere in carcere. Nel carcere il tempo è più frammentato e pieno di rumori, grida, che in ogni altro luogo. Tutto il contrario di quella specie di silenzio conventuale in cui speravo entrando qui dentro. Per me, oltre alla privazione carceraria, c’è questa coazione a ritornare e restare in un luogo del passato, gli anni del movimento Lotta continua, dal quale io ero andato via. Una specie di dannazione».

La giustizia saprà valutare nei confronti dei latitanti arrestati ed estradati gli effetti del tempo, le singole situazioni, la precarietà di chi è anziano, l’aggravante della malattia, con quell’umanità che si richiede a uno Stato di diritto. Ma deve rimanere giustizia, appunto.

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