Vertici e programmi
La strada è in salita

Giuseppe Conte riceverà questa mattina dal presidente della Repubblica l’incarico di formare il nuovo governo. Sergio Mattarella ha avuto l’indicazione del nome di Conte da due partiti che insieme costituiscono la maggioranza del Parlamento (risicata al Senato, come al solito). Il «via» politico è arrivato, ma questo non significa che la strada sia in discesa, anzi. La trattativa sin qui condotta da Zingaretti, Di Maio e Conte stesso non ha infatti ancora sciolto il nodo dell’assetto di vertice del governo. Il Pd considera Conte non un presidente «super partes» ma l’espressione del Movimento Cinque Stelle. Per questa ragione dice no alla richiesta di Di Maio di rimanere a palazzo Chigi come suo vice: il volante del governo sarebbe nelle mani di due grillini, e questo per Zingaretti è inaccettabile, anche perché contraddirebbe la discontinuità richiesta dal Pd per dire sì all’accordo. Se ci deve essere un vicepremier, ragionano al Nazareno, dovrà venire dal Pd: o così o meglio nessun vicepremier.

La questione è meno «poltronista» di quanto appaia e riguarda più sottilmente la questione della leadership del M5S. Se Conte diventasse l’esponente grillino più in alto, finirebbe per essere considerato il vero leader del Movimento. Di Maio, fortemente indebolito nel consenso interno, condizionato da correnti e avversari, ex garante di una stagione politica fallita, deve dunque per forza di cose restare a palazzo Chigi per confermare il proprio potere all’interno del movimento pentastellato. Per questo ha proposto come compromesso a Zingaretti che ci siano due vice, come era con Salvini: uno del M5S, lui stesso, e uno del Pd (forse Franceschini o Andrea Orlando).

Da come si comporrà la cabina di comando di palazzo Chigi discenderà la spartizione dei ministeri tra i due partiti (più Leu, forse). La questione dovrà essere sciolta in fretta perché se non ci si riesce, il governo non si fa. Il problema immediatamente successivo è quello del programma. Ora si annuncia che si procederà ad un programma «omogeneo» tra i due partiti. Viene dunque superata la fase del contratto in cui gli orientamenti dei partiti corrono tra loro paralleli: ci si propone di fare un passo in avanti. La domanda è se sia possibile omogeneizzare i programmi di due partiti così radicalmente avversi. Basti pensare alla politica industriale e del lavoro, alle grandi opere, agli investimenti per le infrastrutture, alle privatizzazioni-nazionalizzazioni dei servizi per capire che si parte da presupposti molto lontani. Non sarà un caso che per quattordici mesi i più qualificati esponenti democratici abbiano quotidianamente bombardato le leggi del governo giallo-verde non solo per quel che riguardava il comparto sicurezza gestito da Salvini ma anche per l’economia che era in mano ai grillini e a Di Maio in persona. Senza troppi giri di parole, quei provvedimenti venivano considerati più che sbagliati: addirittura cialtroneschi e dilettantistici. Forse sarà per questo che ora Grillo invoca il contributo dei «competenti» per guidare i ministeri del governo costituendo.

Queste dunque sono le due sfide maggiori. Senza naturalmente dimenticare il bollore che agita la vita interna sia del Pd che del M5S. Da una parte Carlo Calenda se ne va sbattendo la porta e preannunciando un nuovo partito liberal-democratico. Dall’altra si susseguono annunci di dimissioni di dirigenti locali e manifestazioni di protesta da parte dei militanti cui verrà comunque data la soddisfazione di votare sulla piattaforma Rousseau per far sapere come la pensano.

In ogni caso, al di là e al di sopra di questi problemi da risolvere, questo governo nasce con la benedizione della comunità internazionale, dell’Europa, dei mercati finanziari (lo spread è a 176, come ai tempi del governo Gentiloni) e probabilmente anche del Quirinale. Si è costituito un fronte anti-Salvini che vuole tenere la Lega il più possibile lontana da palazzo Chigi. E l’obiettivo sta per essere raggiunto (salvo sorprese, naturalmente).

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