Zaky, il supplizio
di uno studente

Da 300 giorni rinchiuso in una cella affollata, senza letto né materasso e costretto a dormire per terra. L’accusa è aver diffuso informazioni via social contro lo Stato. La carcerazione viene reiterata durante le udienze che si tengono ogni 45 giorni - l’ultima lunedì scorso - e nelle quali Patrick Zaky, 29 anni, egiziano di Mansoura e cristiano copto, specializzando all’Università di Bologna, ripete invano: «Sono uno studente, voglio tornare a studiare in Italia, non ho fatto nulla di quello di cui mi accusate» e chiede al giudice di verificare l’autenticità dei post di Facebook sulla base dei quali è accusato di propaganda sovversiva, secondo la legge antiterrorismo locale. Sotto il regime di Al-Sisi basta poco per finire agli arresti e Zaky, fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio scorso mentre rientrava nel suo Paese per una breve visita ai genitori e alla sorella, è stato destinato al carcere «Tora», detto anche «Tomba» perché molti detenuti escono morti, per lo stato di privazione o per le violenze subite.

In Occidente le critiche allo Stato e a chi lo governa sono all’ordine del giorno. In Egitto la legge anti terrorismo voluta dal presidente non solo consente la carcerazione preventiva senza termini né prove ma impunemente la consiglia come cura per i guastatori e i detenuti politici: sono ben 60 mila, basta una critica pubblica al regime per rientrare in questo numero enorme. Ciò da parte di una leadership di bugiardi che non è riuscita ancora ad ammettere la verità sul delitto di Giulio Regeni, il ricercatore italiano dell’Università di Cambridge scomparso il 25 gennaio 2016 mentre stava lavorando al Cairo a una tesi di dottorato sui sindacati del Paese.

Il suo corpo, con i segni di innumerevoli torture, venne trovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, abbandonato a lato di una strada. La procura di Roma nei giorni scorsi ha chiuso l’inchiesta sull’omicidio: cinque agenti del servizio segreto civile egiziano saranno processati in contumacia con l’accusa, sulla base di testimonianze, di aver rapito, torturato e ucciso Regeni. Il processo si svolgerà però senza la collaborazione dei magistrati egiziani, che hanno invece deciso di procedere con un dibattito autonomo, non contro i rapitori e gli assassini di Giulio, che giudicano «ignoti», ma verso chi rubò i suoi effetti personali, con l’accusa del solo furto. Cinque persone, ritenute parte della banda di ladri, sono state uccise dalla polizia cairota nonostante fossero innocenti.

Di fronte a questi fatti è ben poca roba la pressione politica esercitata fin qui dall’Italia. Anche perché accompagnata nei mesi scorsi dalla vendita di armi e di due fregate del valore di 1,2 miliardi di euro, con la giustificazione che questo commercio avrebbe ammorbidito la dittatura aprendo canali per la trattativa (secondo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e della Difesa Lorenzo Guerini). Così non è stato, anzi, siamo stati umiliati anche sul fronte giudiziario («assassini ignoti»). Né esiste una comunità internazionale intenzionata a difendere la verità: lunedì scorso il presidente francese Emmanuel Macron ha ricevuto a Parigi con tutti gli onori che non merita Al-Sisi. Alla fine dell’incontro il capo dell’Eliseo ha ribadito che «non siamo d’accordo sui diritti umani, ma continueremo a vendere armi all’Egitto per non indebolire la lotta contro il terrorismo». Ma la pratica di generare terrore negli oppositori e critici cos’è? Nell’agosto 2019 invece il presidente americano Donald Trump definì il collega egiziano «il mio dittatore preferito».

Ma a volte capita che le speranze si avverino. Waled Yuossef, cittadino egiziano emigrato in Australia, arrestato al suo ritorno nella patria d’origine in visita ai parenti, ha trascorso dieci mesi in carcere per un «like» su Facebook considerato antiregime. Il governo di Canberra non la prese bene e tanto ha insistito finché, a inizio dicembre Waled è stato rilasciato. Eppure si può, Patrick Zaky lo meriterebbe.

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