Il piacere di leggere / Bergamo Città
Domenica 14 Gennaio 2024
«Trasformo la paura in gratitudine»
L’INTERVISTA. La nuova raccolta poetica di Franco Arminio: ho passato tanta vita lamentandomi, non va bene: «Tutti dobbiamo fare un enorme lavoro per insediarci nella gentilezza e nell’attenzione al dolore degli altri».
«Raccogli la gioia del giorno, / se ne trova sempre qualcuna / se ti guardi bene intorno»; «Non aspettiamo la sventura / per ricordarci la grazia / della piccola e infinita vicenda / di stare qui in un giorno qualsiasi»; «Essere qui è una piccola, breve, / irripetibile occasione»; «Preghiamo che ogni giorno / sia la festa della gentilezza, / della gratitudine».
«Canti della gratitudine» è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Franco Arminio (Bompiani, pp. 187, euro 18), dopo la non meno bella «Sacro minore», con cui condivide e consente molti, fondamentali motivi di ispirazione: la partecipata attenzione alle cosiddette «piccole cose», la poesia della terra, degli alberi, del lavoro, dei contadini, di quello che di vero sopravvive, nonostante tutto, negli uomini; l’amore e la vicinanza nei confronti degli esclusi, dei timidi, dei non amati, dei dolenti, degli innocenti, dei vecchi, dei morti; la lode del «guardare» come postura esistenziale salvifica, da proteggere, in tempi di cogente obbligo al «fare»; l’ecologia come necessario atto d’amore. Temi cui si intreccia, qui, presenza forte e, forse, caratterizzante, una sorta di pedagogia della gratitudine, l’(auto)-educazione, l’(auto)-esortazione all’essere grati, che trama tanti pezzi della raccolta. Gratitudine per la luce, per il cuore che fa il suo lavoro, per il puro fatto di esserci.
Arminio, perché ha eletto a titolo dei suoi «Canti» la gratitudine?
«Io di natura tendo ad essere un po’ lamentoso, un recriminatore. Ho passato tanta vita lamentandomi, anche del fatto che mi lamentavo. Avvertivo che questa postura non andava bene, come quella che ho avuto per molti anni di rabbia, che poi uno traveste da sete di giustizia, indignazione perché le cose non vanno bene. In realtà è più una frustrazione, pensavo di meritare chissà che, le cose non andavano come volevo. Invecchiando senti che devi essere grato: sei arrivato sin qui nonostante tante paure, questo corpo che hai sempre sospettato ti porta in giro. Gratitudine anche verso se stessi, il proprio fisico, il fatto che ti innamori; stupore, meraviglia per le cose che ci stanno intorno. Questo libro è un po’ il riassunto di tutti i fili cui ho lavorato negli ultimi anni. Non sono un professionista della gratitudine, della gentilezza, dell’ammirazione. Ho delle tensioni verso queste cose. La cosa che dico a me stesso, prima ancora che agli altri, è che tutti dobbiamo fare un enorme lavoro per insediarci nella gentilezza, nella gratitudine, nell’attenzione al dolore degli altri. Non sono cose che arrivano così, da sole. Una cosa è dire, una cosa è abitare davvero questo sentimento. Cerco di trasformare la paura in gratitudine. Ho paura ma grazie perché sono qui».
Colpisce, nel testo, la frequenza quasi didattica, monitrice, di imperativi…
«Come dicevo, sono rivolti in primo luogo a me stesso. La mia non è una condizione di saggezza, non sono un santone. Sono una persona estremamente fragile, e, andando avanti, divento ancora più fragile. Mi curo scrivendo».
«Non sono un professionista della gratitudine, della gentilezza, dell’ammirazione. Ho delle tensioni verso queste cose. La cosa che dico a me stesso, prima ancora che agli altri, è che tutti dobbiamo fare un enorme lavoro per insediarci nella gentilezza, nella gratitudine, nell’attenzione al dolore degli altri».
Lei incita spesso a stare vicino alle ferite degli altri. È possibile? Ognuno, in fondo, è un «perso dentro i fatti suoi»…
«Sono sguardi che ogni tanto lanciamo verso gli altri. Non è una condizione perenne, poi uno ripiomba nel proprio narcisismo, egoismo, egocentrismo. È un’altalena tra il dentro e il fuori. Bisogna essere onesti: se tutti fossimo come diciamo di essere, il mondo sarebbe infinitamente migliore».
A proposito di narcisismo ed egocentrismo, Lei scrive: «Dobbiamo occupare solo / una piccola zona di noi stessi, / il resto è luogo di passaggio / per esseri umani, animali, piante».
«Se tu occupi tutto lo spazio dentro te stesso un po’ ti avveleni, la condizione diventa un po’ intollerabile. Va bene avere un Io grande, ma quando occupa tutto lo spazio, l’ambiente diventa tossico. Oltre un certo segno l’egocentrismo diventa doloroso. Non è che lo dobbiamo fare per gli altri, lo dobbiamo fare per noi stessi».
In questa bolla di narcisismo, egocentrismo, egoismo materialistico, in cui conta solo quanti soldi o potere hai, si vive male un po’ tutti. Non è che si può riempire la vita comprando cose. Il bisogno di senso resta eluso.
«Questo mondo produce solitudine. Nel fortunato caso in cui tu abbia delle possibilità, puoi cercare di fare altri soldi. Provi a guadagnare sempre di più, ma non per questo sei felice. La questione, più che economica o ideologica, è teologica. Senza la dimensione del trascendente, dell’invisibile, del metafisico, non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo reimmettere nella nostra dimensione il sacro, il mito, l’arcaico: questa specie di progressismo materialistico non ci rende felici, non è la via della nostra anima. Questa richiesta ossessiva, insaziabile, rivolta al mondo, è fallimentare: come buttare acqua in un secchio rotto. Il segreto è dire: “Oggi non è successo niente. E vabbe’, che meraviglia!”».
La vecchiaia, la morte: presenze percepite come insopportabili, con cui lei propone una diversa cordialità: «La poesia serve a capire / che la morte è dentro la vita, / […] / è il mistero che ci accompagna, / non è l’estraneo / che ci agguanta».
«Se la morte non la guardi, la rimuovi, non è che se ne va. Penso alla morte cento volte al giorno, ma qualche volta mi porta anche un po’ di letizia: penso anche che intanto non sono morto. Penso che sono mortale ma qualche volta mi ricordo anche che sono natale. All’inquietudine possiamo affiancare un po’ di letizia. Dire delle cose che stringono la mano a qualcuno».
Anno nuovo, tempo di buoni propositi.
Come scrivo in una poesia, «Prometto di non lamentarmi / e di non recriminare, di dare di più / e pretendere di meno».
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