Nei 5 Stelle una diarchia
per evitare il burrone

È un estremo tentativo di evitare la scissione, l’accordo raggiunto sulle regole del Movimento Cinque Stelle raggiunto da Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Dopo aver litigato senza esclusione di colpi (fino all’offesa personale), i due leader hanno convenuto su un punto: la scissione sarebbe il modo più veloce
per andare verso la dissoluzione del M5S già alle prossime elezioni amministrative e poi alle politiche quando ci sarà lo spirare di questa legislatura, pure cominciate nel trionfo grillino.

Due gruppi tra loro contrapposti avrebbero dimostrato l’impossibilità, per il M5S, di superare la prova-governo mantenendo almeno in parte alcuni degli slogan che a suo tempo consentirono la conquista della maggioranza relativa del Parlamento. Per evitare questa deriva, i capi hanno trovato la soluzione più logica: una diarchia. Cioè comandano in due. Ma che sia la soluzione più logica non vuol dire anche la più facile, o la più percorribile. Dai tempi dell’antica Roma, i due consoli in genere cominciano con una stretta di mano e finiscono per pugnalarsi a vicenda: difficile, raro che riescano ad andare d’accordo. Ma a parte la conoscenza della storia romana, tutti sanno, in casa grillina, che questo potrebbe rivelarsi un accordo di carta. Grillo non ha alcuna intenzione di cedere il potere di dire l’ultima parola su tutto, quando vuole e quando gli gira di farlo.

Conte invece si considera il rappresentante di un futuro che non può tollerare di essere contrastato oltre un certo (basso) limite. Del resto, lo si è visto con la riforma Cartabia del processo penale che di fatto cancella il testo dell’ex Guardasigilli grillino Bonafede sulla prescrizione. Conte era contrario a votare a favore in consiglio dei ministri, al massimo ipotizzava una astensione; Grillo (con Di Maio) la pensava all’esatto contrario: meglio accettare la mediazione offerta del ministro della Giustizia che essere isolati in consiglio con i quattro voti di cui dispone il Movimento. Risultato, Grillo ha telefonato a Draghi e si è messo d’accordo con lui. Il presidente del Consiglio, con in tasca il sostegno del fondatore, è andato avanti senza più ascoltare nessuno. Conte si è rifatto spargendo dichiarazioni di fuoco e soprattutto incitando i parlamentari a darsi da fare quando la riforma approderà alla Camera e al Senato. Dove non si sa come andranno le cose: nell’assemblea dell’altra sera si è capito che gli animi della base ribollono, che i ministri (che hanno votato sì a Cartabia-Draghi obbedendo a Grillo e a Di Maio ) sono sotto accusa e che le correnti si stanno frantumando in mille pezzi, ognuno contro qualcun altro.

È poi immaginabile che una cosa del genere accadrà tra poco quando parte della maggioranza (Italia Viva, Lega, Forza Italia) porranno la questione dei fondi destinati al reddito di cittadinanza che vorrebbero tagliare per destinarli ad attività produttive piuttosto che al sussidio. Cosa faranno i grillini? Come reagiranno, e soprattutto cosa diranno Conte e Grillo? E se saranno, ancora una volta, di parere opposto, alla fine chi prevarrà? Domande che si porranno in ogni prossima occasione delicata. Il risultato potrebbe essere che, da nessuna guida, il M5S passerà ad averne due in contemporanea e in conflitto tra loro. E allora il gioco potrebbe ricominciare da zero. Ma non è questo il momento delle ipotesi peggiori: ora tutti i capi e i loro vice gioiscono e si rallegrano, tirando un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Mai come nelle ultime due settimane il rischio della scissione è apparso a tutti dietro l’angolo. Il pragmatismo di Grillo-Conte e di Di Maio-Fico ha evitato il burrone. Almeno fino alla prossima curva.

© RIPRODUZIONE RISERVATA