Bimbi non riconosciuti in Bergamasca, cinque casi ogni anno: parti in sicurezza

L’AIUTO. Gli ospedali: «Garantiti le cure e l’anonimato». Al Papa Giovanni: «Concedere più tempo per ripensarci». Al Bolognini attivati psicologa e «volontaria dedicata».

Al «Bolognini» li chiamano con amore «bambini donati». Perché anziché essere abbandonati vengono affidati alle cure ospedaliere, prima di essere accolti in una nuova famiglia. Secondo la Società italiana di neonatologia (Sin) il fenomeno dei bambini non riconosciuti alla nascita incide a livello nazionale per circa lo 0,07% sul totale dei nati. Per la Bergamasca, in generale, corrisponde a circa cinque casi ogni anno. Per fare un esempio, all’ospedale di Seriate, dal 2016 a oggi, ne hanno contati otto, su circa 2mila nascite all’anno; anche all’ospedale di Treviglio-Caravaggio il dato è estremamente contenuto: si parla, infatti, di soli due casi in un lustro. Tranne nel biennio del Covid, quando non c’è stato nessun caso, la media è stata di uno-due bambini non riconosciuti all’anno. Nel 2023 non c’è stato ancora nessun caso.

Enea, lasciato nella Culla per la vita della Clinica Mangiagalli di Milano e la bimba nata in un capannone dismesso in zona Quarto Oggiaro, portata dalla madre all’ospedale Buzzi, nei giorni scorsi hanno riacceso i riflettori su queste storie difficili. Per chi le tocca con mano sul nostro territorio, è l’occasione per lanciare un messaggio fondamentale. «Si può partorire in totale anonimato in qualsiasi ospedale, una garanzia di sicurezza per sé e per il bambino», ricordano dai reparti dedicati. «I bambini non riconosciuti non sono tanti ma ci sono – premette Giovanna Mangili, direttrice della struttura complessa di Patologia neonatale del “Papa Giovanni” –. Storie segnate da difficoltà, incertezze, fragilità. Bisogna sempre ricordare che la legge consente alle mamme di partorire in qualsiasi ospedale, con la possibilità di non essere tracciate da nessuna parte».

Dieci giorni di tempo

Sono dieci i giorni di tempo concessi per ripensarci, prima che il Tribunale dei minori emani l’atto di adottabilità. «In casi in cui avvertiamo che c’è margine per cambiare idea, cerchiamo di andare incontro ai genitori e chiediamo all’autorità giudiziaria di concedere più spazio, anche un mese», precisa Mangili. Anche Cristina Bellan, direttrice della Neonatologia Tin dell’Asst-Bergamo Est, ospedale Bolognini, si concentra sulla finestra di tempo che può spalancare nuove possibilità. «I dieci giorni – ricorda – sono un periodo molto importante, in cui, nell’assoluta riservatezza, tra le mura dell’ospedale, se la mamma lo permette, attiviamo la figura della psicologa del Dipartimento di maternità, per approfondire meglio le ragioni di questa scelta, e capire se sono ineluttabili o se, con un percorso di sostegno, possono essere riviste. In un paio di casi le mamme hanno deciso di accogliere i bambini che inizialmente non avevano riconosciuto». Rarissimi invece i casi di disconoscimento (cioé di chi prima li riconosce e poi ci ripensa), una pratica molto lenta e complessa.

Una volontaria dedicata

Al «Bolognini», fino al pre Covid, c’era anche la «volontaria dedicata». «Si prende cura tutti i giorni di questi bambini, nel periodo in cui sta con noi in reparto, generalmente un mese. Li cambia, li coccola, per non interrompere il legame neurosensoriale nella fase post natale, e dare al bambino una figura affettiva fondamentale per continuare quel flusso di sensazioni che avveniva già nella pancia materna. L’abbiamo sospesa col Covid, ma ora siamo pronti per ripartire», annuncia Bellan.

«Non avere un atteggiamento giudicante»

Secondo la Sin nel 62,5% dei casi si tratta di neonati non riconosciuti da madri straniere e nel 37,5% da mamme italiane, con un’età compresa soprattutto tra i 18 e i 30 anni (48,2%). In realtà, esiste una trasversalità sia per età sia per provenienza. «Ci sono anche donne italiane, sposate e con famiglia. Le situazioni sono sempre più sofferte e complesse», riflette Bellan. Un mix di cause economiche, fragilità cognitive, sociali e ambientali. E l’invito condiviso è a non avere «un atteggiamento giudicante» nei confronti di chi compie questa scelta «per l’intreccio di tantissime motivazioni».

Una nuova famiglia

«Per la mamma resta una sofferenza che la segna per sempre. I bambini invece, che nella maggior parte dei casi sono sani, trovano subito una nuova famiglia. Con il Tribunale e le assistenti sociali cerchiamo di velocizzare i tempi dell’adozione, perché i neonati non restino troppo a lungo in ospedale, e possano essere accolti quanto prima nelle famiglie desiderose di amarli», osserva Mangili.

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