«Che spettacolo le mie Orobie piene di gente» - Al via l’inchiesta sulla montagna

L’intervista L’alpinista Simone Moro, nato e cresciuto sulle montagne bergamasche, fotografa il cambiamento di attrattività delle «terre alte» accelerato dalla pandemia: «Adesso serve un Piano Marshall per valorizzarle». Partecipa al contest sulla pagina Instagram de L’Eco di Bergamo.

Simone Moro è un’onda di energia dall’altro lato dello schermo di Whatsapp. È in Nepal con i suoi elicotteri, nel frattempo scrive, nel frattempo si allena, nel frattempo fa cose, pensa, inventa, organizza, programma. Ma se gli dici «Orobie», mette su quell’aria pacifica e soddisfatta dell’uomo che da lontano sente parlare di casa e si allarga. Allarga il sorriso, gli occhi, le braccia che arrampicano probabilmente da quando viene al mondo, in sala parto. Lui, che ha visto cose che noi umani, le più strepitose bellezze del Creato che Dio ha messo sulla Terra, nevi immacolate e copiose, ghiacci eterni, vette inviolate, rocce di una nobiltà che nemmeno ce la possiamo sognare, cieli da perdersi, altezze da mancare il fiato e non solo in senso lato. Ma se gli dici «Orobie» parte per un livello superiore, vien da dire messianico.

«Le Orobie sono dannatamente belle». E strafà sul dannatamente. Forse perché ci è nato. Forse perché al «Vittorio Emanuele» quando faceva ragioneria c’è chi ricorda che un giorno arriva tutto gasato e dice: «Oggi vado a pitturare». Intendeva, a dare una mano a un imbianchino. Ma la felicità? «Salgo sui trabattelli, sto in alto». Capisci che ragioneria non era proprio il suo mestiere. Dai trabattelli alle prime rocce è un attimo e dalle prime rocce alle Orobie è l’attimo dopo. E da lì, i tetti del mondo. Ma quel primo mondo verticale fuori casa, quelle rocce nobili e silenziose che ci coprono le spalle a Nord, sono per Simone Moro un fuoco che non si spegne mai. Dici «Orobie» e quello che è uno dei «top player» mondiali dell’alpinismo, parte come un yperloop, innamorato perso. «Sono dannatamente belle, la gente se ne sta accorgendo, serve un Piano Marshall per la montagna, vanno preservate le identità senza frenare il progresso. Queste montagne se lo meritano. E anche la gente che ha la fortuna di viverci. Sì, la fortuna».

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Ci può spiegare?

«Nel 2000 ho fatto la prima Traversata delle creste delle Orobie, io e Mario Curnis che era con me (o meglio io ero con lui) avremo incontrato tre gatti, quattro. L’ho rifatta nel 2020, vent’anni dopo e c’era un sacco di gente. Non in cresta dove si arrampica, ma il sentiero si snoda poco sotto e da sopra vedi giù. Poi io e Alessandro Gherardi scendevamo per dormire nei rifugi che erano pieni, una stagione così i rifugisti non se la ricordavano. Certo, c’entra la pandemia che ha fermato i viaggi, ma penso che abbia solo accelerato un fenomeno in atto da qualche tempo: le nostre montagne non sono mai state così attrattive».

Stiamo sulla parola «attrattive».

«Stiamoci. Non servono tanti voli per fotografare il fenomeno. Stiamo attenti: nel Nord Italia, ma più specificamente in Lombardia, Lecco, anche Bergamo, ha sede il 90% delle aziende che producono grandi marchi dell’accessorio dell’escursionismo: i fatturati volano. Scarpe, scarponi, bastoncini, abbigliamento, zaini, insomma l’attrezzatura. Un mercato che è esploso. Fai presto poi a fare due più due».

Si fa presto anche a dire che esplodono i numeri di chi si sente il Simone Moro della situazione?

«Ma no», ride.

Perché no?

«Le creste non sono alla portata di tutti, ci deve andare chi è capace, allenato, istruito, magari accompagnato da una guida alpina. Il Sentiero delle Orobie invece, per esempio, ma la rete dei sentieri è molto più ampia e guarda che è molto ben fatta, è a misura di tante persone ed è proprio l’escursionismo che è esploso, la camminata di bassa e media montagna, la conquista di una campana o di una croce sulle medie cime, l’arrivo a un rifugio e anche sui rifugi c’è da fare un discorso neanche tanto lungo: come sono diventati belli. Non ci dice niente che tanti giovani oggi decidono di fare i rifugisti? Perché prima di tutto oggi molto più che in passato sono economicamente sostenibili proprio per questo fenomeno di “assalto” alla montagna. E poi per un motivo che è anche più rivoluzionario, segno dei tempi: qualcuno ha capito che restare è una scelta che paga sotto tanti punti di vista».

Quali?

«Mettiti in macchina, fai un po’ di chilometri magari in coda per scendere a valle per andare a lavorare, poi la sera fatti altri chilometri, magari in coda, per tornare a casa. Il giorno dopo uguale, sempre così. Per decenni. Oppure, fai la rivoluzione e invece di scendere, sali. Vivi e lavori in luoghi dannatamente belli. No che non devo aggiungere altro».

Qualcuno, e più d’uno, obietterà che sono concetti «romantici», che non tutti possono fare i rifugisti e che poi in concreto a fine mese...

«In concreto però c’è che abbiamo un numero in crescita verticale di persone che il sabato e la domenica, ma non solo, frequenta l’arco delle Orobie. Ed è un segnale che dovrebbe accendere una lampadina, anzi tante lampadine. Attorno a questa crescita verticale la montagna deve fare dei ragionamenti che ruotano attorno a un concetto semplice: bisogna cambiare, coniugando sviluppo e conservazione. Per questo dico che serve il coraggio di un Piano Marshall per la montagna».

Le strategie di medio e lungo termine per lo sviluppo futuro della Bergamasca si concentrano ben più a sud. Dalla montagna scende ogni giorno un grido, più o meno inascoltato. E lei parla di Piano Marshall: il mondo dei sogni?

«È iniziato un fenomeno di cui prima o poi qualcuno si dovrà accorgere. È una fetta di crescita del Pil della Bergamasca, altro che sogno», si scalda.

Ma i Pil crescono per le Dolomiti, per la Valle d’Aosta. Le Orobie non sono così famose, la gente viene il sabato e la domenica.

«E per forza. Ed è questo il lavoro da fare. Ma guarda che prima di tutto dobbiamo fare un esercizio mentale e culturale. E comincio con la mia storia: non mi sono mai sentito di serie B perché non sono nato nelle Dolomiti. Ma non lo dico a caso, torno sempre lì: le Orobie sono dannatamente belle, per un alpinista e per un escursionista. Solo che noi bergamaschi facciamo una gran fatica a dircelo, non lo sappiamo, le diamo per scontate, sono bravi solo gli altri a fare turismo, un gran lamentarsi, un ma, un se, un però. Effettivamente piangersi addosso è più facile e purtroppo è una reazione ancora diffusa. Ma bisogna smetterla. Cinquant’anni fa se andavi sulle Dolomiti era già bello se ti dicevano ciao in italiano, parlavano solo tedesco e gli davi fastidio. Poi qualcuno ha capito che cambiare atteggiamento avrebbe voluto dire cambiare l’economia di una regione. E hanno cambiato atteggiamento. Attenzione, lo sottolineo: ha cambiato atteggiamento la gente comune, ma prima l’hanno fatto i governanti, le istituzioni. Hanno capito che le Tre Cime erano un brand e guarda cosa hanno tirato su: l’Alto Adige vive di turismo. Lo voglio dire forte e chiaro, per l’ennesima volta: le Orobie sono altrettanto belle. Faccio un paragone: sono frutta biologica, incontaminata, hanno delle peculiarità uniche, non sono artefatte, hanno un’autenticità che altrove non c’è più».

Non vorremmo il luna park, però, vero?

«No, e sono molto serio. No. Tanta gente va in montagna adesso, e la grandissima parte ci va perché cerca silenzio, pace, la bellezza della natura, l’aria pulita. Va per respirare da una vita che giù è diventata spesso disumana. Tanti se ne sono accorti e stanno ridando valore a questa pace, a questa dimensione. Lo sviluppo delle Orobie, della sua economia, di quella dei suoi paesi deve andare di pari passo con la conservazione della bellezza che regna in questi luoghi».

Un bel dilemma, come si fa a coniugare sviluppo e conservazione. Tanti ci hanno provato a mettere la felicità nel Pil...

«Non sono un politico e non sono un pianificatore, io posso solo parlare in base alle mie esperienze, a quello che ho visto in giro per il mondo. Se ci sono mille leggi e leggine che non ti consentono di tenere i boschi, se non puoi sistemare una strada per arrivare alle baite e agli alpeggi, se per ristrutturare i borghi devi fare una burocrazia che ti passa la voglia, per aprire un bar, un ristorante, per fare innovazione intelligente hai sempre mille ostacoli, beh, allora. Non cambia mai niente. E la gente continuerà ad abbandonare luoghi meravigliosi perché non si è stati capaci di far crescere un’economia attorno alla massa di gente che sulle Orobie ci va e vi vuole andare. Tanta gente, ma ancora poca rispetto alle potenzialità. Guarda che, vuoi la pandemia, il cosiddetto intrattenimento indoor, dallo sport alle discoteche, ha stancato. In montagna si rivedono i giovani, la felicità che gli leggi in faccia dopo la fatica è pazzesca. Certo, magari vogliono solo arrivare a un rifugio, però che problema c’è? Non sono mica qui per giudicare. Dico solo che le Orobie hanno tutte le caratteristiche per essere un marchio come le Dolomiti o il Rosa o il Bianco. C’è da lavorarci».

Lei è un osservatore privilegiato, cosa fanno gli altri?

«Tanto, perché ci credono, perché vedono i dati economici che si sposano con il benessere. La promozione è sicuramente una delle chiavi che possono aprire le Orobie a un pubblico italiano e straniero. Perché all’aeroporto di Malpensa hai i cartelloni sulle terre di Sicilia e non le montagne della Lombardia? Certo, magari hai Ponte di Legno o Bormio. Ma noi? Tanti atleti hanno la fascia con il nome delle montagne da cui provengono, da noi il marchio non c’è nemmeno. Io vedo buona volontà tra la gente, ma la politica è lontano. Guarda in giù, perché non anche in su? La montagna è una fetta non indifferente della nostra geografia e delle nostre comunità».

Torniamo alla sua Traversata delle creste nel 2022. Cos’è cambiato, a parte il numero di persone che ha incontrato, rispetto alla prima nel 2000?

«Non è cambiato che gli scenari sono sempre spettacolari. Per un alpinista le sfide che presentano le creste di casa nostra restano un’avventura emozionante, ma non c’è ancora un progetto per farne una meta di richiamo ed è un peccato. Le guide alpine le propongono, ma serve un progetto più ampio e realizzato dalle istituzioni per creare un marchio spendibile nel mondo dell’alpinismo. È senza dubbio cambiato il clima, dei ghiacciai resta poco o niente, una lingua di quello storico del Gleno. E questa è la parte brutta. Quella bella, invece, è che la fauna è cresciuta moltissimo, la popolazione delle aquile per esempio, ma anche camosci, stambecchi, marmotte. Si sono abituati alla presenza dell’uomo e non lo temono, quindi è uno spettacolo vederli relativamente da vicino. Pensa a un bambino, portarlo così vicino a queste creature che invece rischia di vedere solo davanti allo schermo del computer. Devo dire anche che la rete escursionistica è molto ben fatta, si vede che c’è passione. Dove non ci si mette di mezzo troppo la burocrazia e leggi assurde, tanto è stato fatto. Ma serve uno slancio. Poi certo, se non puoi toccare un sottobosco perché sennò ti arrestano, il bosco muore. O per lo meno, non è più praticabile. Non solo non ci sono veri incentivi a restare in montagna, ma ci sono pure ancora troppi ostacoli. Continuiamo a parlare di Parco delle Orobie, però penso che dovremmo uscire da questa logica della montagna come riserva indiana, una montagna che io chiamo anestetizzata. Il cambiamento culturale deve essere questo, bisogna lottare per abbattere i muri che impediscono alle terre alte di entrare nel futuro, con misure e modi che sono diversi da quelli delle città e delle zone più antropizzate. Ma bisogna come dire, dare aria a queste nostre meraviglie, lasciare che restino popolate e incentivare la “restanza”. Come si fa a non coglierne l’opportunità?»

La gente di montagna obietta che non si può vivere di turisti che salgono il sabato e la domenica, e continua a sognare i tempi della villeggiatura.

«Perché continuare a guardare indietro?».

È una radice identitaria forte, siamo sempre stati così. Paura, timori, mancanza di fiducia, una certa rassegnazione.

«Sì. Però io cosa sono qui a fare se non a dimostrare che la passione è la forza che spiana gli ostacoli. Non è che io non sia un montanaro: lo sono e con orgoglio, non potrei sopportare che le Orobie venissero trasformate in un luna park. Ma il modo c’è per conservare i tratti positivi della nostra identità e lasciare senza rimpianti quelli meno positivi. Pensate un momento ai nomi che la montagna bergamasca ha espresso nel mondo dell’alpinismo? Dei giganti. Sporadicamente li si celebra, ma se penso ai Musei Messner in Alto Adige, perché da noi no? Certo, servono investimenti, per forza, ma il ritorno, non solo economico, sarebbe enorme. Sarebbe celebrare il nome di queste leggende - penso a Walter Bonatti, a Mario Curnis -, ma anche la giusta celebrazione al sistema delle nostre prealpi che la meritano. Ci vuole qualcuno che abbia il coraggio di un piano industriale per le Orobie, e non temo di usare queste parole anche se c’è senza dubbio chi storcerà il naso. Perché, guardate, il futuro di pianifica adesso. La montagna è diventata attrattiva, occorre lavorarla e promuoverla, così la gente potrà restare a vivere sulle Orobie. Mi vengono in mente esperienze come quella del Ferdy a Lenna, quelli hanno saputo coniugare rispetto e sviluppo, è un crinale arduo, un equilibrio complesso, ma se ce l’hanno fatta loro, anche altri giovani ce la possono fare, pescando ciò che di buono c’è nel passato e lasciando quel che non serve più. Sulle creste del 2020 è venuto a trovarmi un appassionato di alpinismo di Taranto, ha preso il treno ed è venuto fin qui per seguire l’impresa che era tracciata col gps. Non era mai stato sulle Orobie e le conosceva solo perché io ne parlo sempre e non mi stanco mai. È rimasto estasiato, ma sai quanti? Possiamo davvero andare fieri di questa coperta che stringe a nord la Bergamasca».

Visto che parliamo di piani industriali, proseguiamo col gergo: qual è l’asset più spendibile delle Orobie?

«Il silenzio».

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