Cinque nuovi preti per la nostra Diocesi. «Questi giovani sono un grande regalo»

La celebrazione Sabato in Cattedrale protagonisti don Carlo Agazzi, don Mario Carrara, don Adrea Cuni Berzi, don Mario Pezzotta e don Taddeo Rovaris. Il rettore don Bergamelli: «Né battitori liberi, né rematori solitari»

Sabato 28 maggio, alle 17 in Cattedrale, cinque ragazzi della nostra Diocesi verranno ordinati sacerdoti, dopo essere diventati diaconi lo scorso ottobre. Sono: don Carlo Agazzi di Grone, don Mario Carrara di Locatello, don Andrea Cuni Berzi di Urgnano, don Mario Pezzotta di Pedrengo e don Taddeo Rovaris di Nembro. Abbiamo chiesto allo sguardo privilegiato di don Gustavo Bergamelli, che li ha accompagnati in questi anni di cammino in quanto rettore del Seminario, di aiutarci a entrare in questo momento così bello e così fondamentale per una Diocesi.

Qual è il contributo più bello che quest’ordinazione sacerdotale porta alla nostra Chiesa di Bergamo?

«Pensando proprio a questi 5 nuovi preti, la prima cosa che mi viene da dire è che sono giovani. Questo è il primo regalo che ci fanno: al di là di tanta retorica pessimista sulle giovani generazioni, loro ci testimoniano che la vita dei giovani, ancora oggi, non smette di lasciarsi provocare da ciò che merita l’impegno di una vita intera. Quattro di loro, poi, provengono dal Seminario Minore, cioè dall’esperienza del Seminario che ha a che fare con i ragazzi tra gli 11 e i 19 anni: il loro percorso dice alla nostra Diocesi che anche nel 2022 è possibile pensare che la vita possa essere il compimento di un sogno fatto in giovinezza. Come Chiesa non possiamo pensare di rinunciare a una proposta vocazionale che si intrecci con il tempo della crescita. In ultimo, i tanti anni di formazione trascorsi insieme rendono questo gruppo molto affiatato: sono amici perché diventati grandi insieme attraverso tante esperienze condivise; anche la forza di questi legami è preziosa per il prete, uomo chiamato sempre più a saper entrare in relazione con tutti».

Come arrivano nelle loro comunità?

«Sabato diventeranno preti, poi più avanti riceveranno la parrocchia a cui saranno destinati a partire da settembre. E vi arriveranno da giovani, cioè con quella capacità quasi innata di conoscere sulla propria pelle ciò che altri giovani stanno vivendo, con la possibilità di una comprensione forse più facile di questo mondo e di questi tempi. Certo, giovani vuol dire anche un po’ inesperti e apprendisti, ma ciò che conta di più è che siano portatori di una ventata di aria fresca. Una testimonianza bella di come il mondo stia in piedi grazie a tutti quelli che hanno il coraggio di donare la propria vita. E grazie al cielo ce ne sono ancora parecchi, non si tratta solo di preti. Poi, i preti novelli arrivano sempre carichi di gioia ed entusiasmo per quello che hanno ricevuto, con il desiderio, bello e umile al contempo, di chi dice “Adesso tocca a me metterci il meglio”: è lo stupore, l’entusiasmo e la speranza di riversare il tanto ricevuto dentro il proprio ministero, per vedere se ciò che si è vissuto può essere bello per gli altri come lo è stato per sé».

Ma è più difficile diventare preti oggi rispetto a una volta? È una vita ancora interessante per un giovane?

«I numeri di questi anni ci dicono che i seminaristi calano un po’ dappertutto, anche a Bergamo. In qualsiasi scelta di vita, mi sembra che il “per sempre” sia diventato estremamente difficile. Ma è vero anche che ogni periodo storico ha sia le sue fatiche, che opportunità. Per esempio, quando sono diventato prete io – ormai 32 anni fa, anche se sembra ieri – il prete era il prete: sapevi cosa aspettarti e cosa dovevi fare per gestire bene l’oratorio. Ho semplificato un po’, ma è per dire che oggi, invece, questi giovani sanno di dover tenere accese una maggiore forza di volontà e una maggiore fantasia. Può essere ancora un tempo straordinario di dedizione e di slancio per la nostra Chiesa. Questo discorso sul fatto che ogni tempo ha le sue crisi ma anche le sue ricchezze vale anche per l’interesse che può ancora suscitare la vita del prete. Certo che a tutti fa un po’ paura il cambiamento, ma il sacerdote è colui che continua a credere che la vita prenda sicurezza e forza quando può appoggiare su qualcosa di solido, come una scelta di fede e di fedeltà. È una vita che sceglie, che ha dei riferimenti che durano e non soltanto l’emozione di un momento. Questo è sempre interessante».

Guardando indietro alla sua esperienza, quali sono le cose più importanti? Cosa augura a questi ragazzi?

«Nell’essere prete ci sono cose che valgono sempre. La prima cosa è che il Padre Eterno c’è. Ma non sei tu: farai errori e avrai bisogno di ripartire da quella stessa fede che sei chiamato ad annunciare ai fratelli mentre la ravvivi per te. Vivi di Cristo. La seconda cosa è che occorre imparare a stare. Imparare a innamorarsi della propria comunità, riconoscendola come la propria sposa, la propria “consorte”: “condividere la sorte” della gente in mezzo a cui si è. Con loro e per loro vivi, gioisci, soffri e preghi; questo significa metterci la vita. Vivi per loro. La terza cosa viene dalle relazioni, da tutte quelle spinte a uscire da sé per andare verso gli altri e verso il Signore: nell’Eucaristia quotidiana, in quel pane e in quel vino, si riversano le briciole e le gocce che provengono dai volti dei fratelli e dalla vita della comunità. Vivi quello che celebri. Ultima cosa, il fare comunione tra preti è irrinunciabile: la missione del sacerdote cresce ed è chiamata a far crescere quella dei confratelli. “Né battitori liberi, né rematori solitari”, come diceva un mio rettore in seminario».

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