Covid, i casi più gravi tra i pazienti portatori dei geni di Neanderthal

PROGETTO ORIGIN. L’Istituto Negri ha individuato una correlazione genetica tra rischio di malattia severa e il genoma di Vindija, che risale a 50mila anni fa.

Quella domanda rimbalza da tre anni e mezzo, da quando la tempesta perfetta s’allineò sul cielo di Bergamo e del mondo. Perché una persona prendeva il Covid in una forma grave, anche letale, e perché invece altre persone – magari i vicini di casa, se non gli stessi conviventi –ne rimanevano immuni? Bisogna tornare a ben prima del 2020, per trovare una risposta. È un balzo indietro nel tempo fino a 70mila anni fa, la risposta che l’Istituto Mario Negri ha trovato al termine di un viaggio nelle profondità del genoma, partendo dalle storie di quasi 10mila bergamaschi e poi guardando al Dna di 1.200 di loro.

Origin, il progetto del Mario Negri sulla relazione tra i fattori genetici e la gravità della malattia Covid, è ora uno studio pubblicato sulla rivista scientifica «iScience» e presentato a istituzioni e cittadinanza. Ed è una scoperta rilevantissima: 3 dei 6 geni che si associano al rischio di malattia grave – come spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri – «sono arrivati alla popolazione moderna dai Neanderthal, in particolare dal genoma di Vindija che risale a 50mila anni fa ed è stato trovato in Croazia».

C’è un riflesso concreto: circa il 30% di chi ha avuto il Covid severo ha avuto un parente di primo grado deceduto a causa del virus; dei pazienti Origin finiti in terapia intensiva, il 33% era portatore dell’aplotipo di Neanderthal; chi era portatore di questo aplotipo aveva un rischio quasi tre volte maggiore di finire in terapia intensiva.

Il metodo

La ricerca è partita da un questionario a cui hanno aderito 9.733 persone residenti in Bergamasca (per lo più della Val Seriana, la zona più duramente colpita), il 92% dei partecipanti che avevano avuto il Covid si era infettato prima di maggio 2020: ma già qui emerge un dato ulteriore, perché 12 di queste persone avevano mostrato i sintomi addirittura a novembre-dicembre 2019, prima dell’esordio ufficiale del virus in Italia. Dopodiché i ricercatori hanno selezionato tre campioni omogenei per caratteristiche e fattori di rischio: 400 persone che hanno avuto il Covid in forma grave, 400 persone che hanno contratto il virus in forma lieve, 400 che non lo hanno contratto. «Chi si è ammalato in modo severo – racconta Remuzzi – aveva parenti morti di Covid. Questo ci ha dato l’idea: c’è qualcosa di genetico, alla base». Così i campioni di Dna sono stati analizzati tramite un «Dna microarray», tecnologia raffinatissima che permette di analizzare per ciascuna persona quasi 9 milioni di varianti genetiche e «di rilevare la regione del Dna responsabile delle diverse manifestazioni della malattia».

L’eredità di Neanderthal

Da lì sgorga la risposta che riporta sino a Neanderthal, cioè i nostri «antenati» che popolavano l’Europa prima dell’arrivo dell’Homo Sapiens dall’Africa. L’analisi del Dna, spiega Marina Noris, responsabile del Centro di genomica umana del «Mario Negri», ha dimostrato che «chi è stato esposto al virus ed è portatore dell’aplotipo di Neanderthal (cioè di una sequenza di Dna “ereditata” dai Neanderthal, ndr) aveva più del doppio del rischio di sviluppare il Covid grave (polmonite, ndr), quasi tre volte in più il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e un rischio ancora maggiore di aver bisogno di ventilazione meccanica rispetto ai soggetti che non hanno questo aplotipo». È in una frazione infinitesimale di genoma che si gioca questa partita per la vita: «Due individui hanno in comune il 99,9% del genoma – approfondisce il ricercatore Matteo Breno -, ma lo 0,1% rimanente equivale a circa 3 milioni di nucleotidi diversi». Ma perché l’aplotipo di Neandterthal ha fatto questi danni? I geni CCR9 e CXCR6 sono quelli responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni, e per esempio CCR9 potrebbe favorire un’eccessiva risposta infiammatoria nel polmone e in altri tessuti; il terzo gene, LZTFL1, è quello che regola lo sviluppo e la funzione di particolari cellule epiteliali delle vie respiratorie, la cui funzionalità è minore in chi appunto ha quel gene che deriva dai Neanderthal.

«Questi geni probabilmente spiegano i decessi tra le persone giovani e senza patologie pregresse – ragiona Remuzzi -. La stima è che questi geni siano responsabili del 15% del totale dei decessi».

Collaborazione e gratitudine

C’è stato uno sforzo immenso alla base dello studio: «Siamo partiti dai centri più colpiti, Nembro, Alzano e Albino, e abbiamo coinvolto l’intera comunità bergamasca – ricorda Ariela Benigni, segretario scientifico del Mario Negri -. È stata fondamentale la collaborazione di Comuni, scuole, associazioni e fondazioni, Asst, Ats e medici di base, farmacie, diocesi, volontari, aziende. Regione Lombardia ha creduto in noi e ha fatto in modo che potessimo iniziare». In platea, attenti ed emozionati nell’ascoltare le scoperte, c’erano anche molti cittadini che hanno partecipato allo studio; tra le istituzioni bergamasche, presenti anche il dg dell’Ats Massimo Giupponi e il dg dell’Asst Bergamo Est Francesco Locati. «È uno studio che apre una via interessante per approfondire e conoscere meglio il Covid e per predisporre cure migliori, il ringraziamento va al professor Remuzzi e a tutto il “Mario Negri” – commenta Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia -. Si sta facendo un passo molto importante per capire e interpretare il futuro». Per Guido Bertolaso, assessore regionale al Welfare, «questo è uno studio di carattere mondiale»: «Ho scoperto che anche io – scherza Bertolaso – ho il Dna del Neanderthal, perché nella prima ondata ho passato 15 giorni con la C-pap. Se il Covid dovesse tornare, avremo più strumenti per proteggere la popolazione».

© RIPRODUZIONE RISERVATA