Diventare ciechi, dalla cruda realtà
alla scoperta di nuovi orizzonti

La storia di Irma Bonalumi: autonomia e volontariato. «Cerco di mostrare che si può vivere bene anche senza la vista».

C’è chi deve passare attraverso il buio per trovare se stesso, accogliere e affrontare la propria fragilità, comprendere quella degli altri. È l’esperienza proposta - in modo sincero e coinvolgente - a chi si immerge nel tunnel sensoriale, un’installazione itinerante dell’Unione italiana ciechi di Bergamo (www.uicibergamo.org), realizzata per avvicinare le persone alla condizione di chi non vede. Irma Bonalumi di Brembate, però, da tempo consigliere e volontaria dell’associazione e guida per il tunnel, prima di accompagnare altri ha provato sulla sua pelle la sofferenza di sentirsi diversa, la fatica di accettarsi così com’è.

L’infanzia e la giovinezza di Irma sono trascorse, come racconta lei stessa, in un lungo pellegrinaggio: «Fin da piccola avevo problemi alla vista - ricorda - e la mia famiglia si è impegnata moltissimo nella speranza di poterli risolvere, affiancandomi in una serie infinita di visite, analisi e terapie, senza mai accettare che ci fosse per me una diagnosi irrevocabile. Da Ossanesga, frazione di Valbrembo, dove vivevo con i miei genitori, due fratelli e due sorelle, sono andata a Pavia, Genova, Bologna, poi anche all’estero, in Spagna e in Svizzera».

In quei momenti nel suo cuore i vuoti, le debolezze e le mancanze pesavano più dei suoi talenti: «Mi impegnavo al massimo in ogni impresa, in una continua sfida con me stessa, a partire dai compiti scolastici. Avevo ottimi voti e sognavo di diventare maestra d’asilo. Purtroppo quando è arrivato il momento di iscriversi alle scuole superiori, in quel corso per me non c’era posto. Mi ricordo che era stata, a quei tempi, una grande delusione: un sogno infranto». Il papà di Irma, però, aveva un’azienda di arredi per esercizi pubblici: «Era una persona molto concreta e ha preso subito in mano la situazione, proponendomi di lavorare con lui». Irma si è dedicata con passione al nuovo incarico e ha imparato in fretta: «Scrivevo a macchina e tenevo accanto a me una lampada che un po’ mi aiutava a compensare il deficit visivo. Mi occupavo di tutti gli aspetti dell’amministrazione, seguendo le indicazioni di due ragionieri. Col tempo mio padre mi ha dato fiducia fino ad assegnarmi il compito di amministratore delegato».

La solitudine, come diceva Jim Morrison, «è ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno». Mentre terremoti invisibili le scuotevano l’anima, Irma si sentiva sempre più isolata: «Da quando avevo smesso di andare a scuola, le occasioni per frequentare i miei coetanei si erano diradate. Avevo sempre più paura ad uscire, perché non ero più abituata a farlo. Mi sforzavo per compiacere mia madre. Nel tentativo di dominare l’ansia, però, avevo sviluppato un disturbo, che esprimeva attraverso il corpo il disagio che covavo in me: nausea e vomito mi accompagnavano come uno strano rito, ne uscivo ogni volta indebolita fisicamente ma trovavo comunque la forza di compiacere le persone che avevo accanto, facendo finta che andasse tutto bene e che il mio problema non fosse poi così grave».

Irma si era abituata ad aggrapparsi all’illusione di guarire, di vivere normalmente, seguendo l’onda delle speranze della sua famiglia, ma sentiva che la situazione era seria e il confronto con la realtà della sua condizione e con se stessa era stato soltanto rimandato: «Ho provato una gravissima sofferenza. A un certo punto non capivo più chi fossi, cosa facessi, quali fossero le mie motivazioni».

Nel 1990 la mamma di Irma è morta: «Avevamo un legame intenso e profondo. Mi sono sentita smarrita, mi sembrava di non poter vivere senza di lei. Sulla sua tomba, però non ho versato solo lacrime, ma ho fatto la promessa di lottare per me stessa, di risollevarmi, di cambiare vita, di non arrendermi mai».

Accettare la realtà

Irma pian piano ha cambiato tutto, incominciando dagli aspetti più semplici e concreti: «Ho deciso di lasciarmi crescere i capelli» come segno di autodeterminazione e di libertà. Poco prima della morte della madre si era rivolta a Caterina Zanotti, psicoterapeuta e psicologa di Bergamo, ma il lutto aveva sospeso il suo percorso: «Ho saltato qualche seduta, il dolore mi aveva tolto energia e slancio. Poi però ho ripreso e la dottoressa mi ha aiutato ad affrontare la realtà più cruda: stavo diventando cieca. Con il suo aiuto mi sono fatta mandare la mia diagnosi dalla Spagna, quella che fino a quel momento la mia famiglia non era riuscita ad accettare e a prendere in mano: così ho scoperto che ero affetta da retinite pigmentosa degenerativa, e che non esisteva alcuna cura. In me si è aperta una voragine, dopo quella seduta mi è venuta la febbre».

Con calma e pazienza, Irma è riuscita a guarire dai suoi disturbi: «La terapia è durata quasi vent’anni ma vado ancora ogni tanto a trovare la dottoressa, che mi ha salvato la vita e mi ha aiutato ad aprire un nuovo orizzonte. Ha saputo entrare nella mia anima con la bilancia dell’orefice, a soppesare i miei malesseri senza sottovalutarli. Devo molto anche alle mie sorelle, Chiara e Fulvia, a tutta la mia famiglia, ai nipoti che amo come se fossero miei figli». Ci sono stati altri ostacoli e battute d’arresto: nel 1998 la morte del padre, nel 2001 la chiusura dell’azienda di famiglia. Quando però Irma credeva di aver perso tutto è iniziato un nuovo viaggio, in cui ha fatto scoperte e ha trovato amicizie: «È solo nel momento in cui diventiamo capaci di amarci e darci fiducia - scrive Michela Marzano - che possiamo amare anche gli altri e dar loro fiducia». Irma dopo la morte dei genitori si è stabilita a Brembate, accanto alle sorelle. Dopo qualche anno di disoccupazione è stata assunta come centralinista in una banca. Si è iscritta all’Unione italiana ciechi di Bergamo, di cui è tuttora consigliere.

Nuove sfide

Poi è entrata anche nell’associazione sportiva Omero (sito internet omerobg.it), che promuove attività sportive per ragazzi ciechi e ipovedenti, come volontaria e come consigliere: «Anche quest’estate - sottolinea - nonostante le difficoltà della pandemia, i volontari sono riusciti ad accompagnare un gruppo di giovani al mare, in collaborazione con l’associazione Bambini in Braille di Brescia, un’occasione di socializzazione preziosissima».

Anche Irma ha affrontato nuove sfide proprio grazie all’aiuto e ai consigli delle associazioni per ipovedenti: «Ho imparato a orientarmi con il bastone, a leggere in Braille, a usare il pc anche se preferisco viaggiare nelle anime più che in rete. Col tempo sono riuscita a elaborare il mio dolore trasformandolo in riscatto, a migliorare l’autostima, ad acquisire la consapevolezza che ogni difficoltà si può superare contando soprattutto sul calore degli affetti.Ho chiesto di poter avere un cane guida e dalla scuola di Scandicci è arrivato a casa mia un Golden retriever, Rodrigo, il gioiello della mia vita. È rimasto con me per 15 anni: un compagno formidabile, che mi portava dappertutto, regalandomi moltissima autonomia. Grazie a lui potevo passeggiare, fare compere nei negozi del quartiere, prendere un caffè al bar. Sono grandi traguardi ai quali non avrei mai creduto di arrivare da sola. Dopo la morte di questo meraviglioso cane ho trascorso un periodo di crisi e depressione, non sono riuscita ad affezionarmi a un altro, avevamo un rapporto speciale. Ho fatto un tentativo che però non è andato a buon fine, versando sale sulle mie ferite».

Il Covid-19 ha creato una parentesi di sospensione anche nella vita di Irma e nelle attività delle associazioni a cui partecipa: «Da metà marzo sono rimasta a casa dal lavoro per precauzione. Le persone non vedenti sono infatti tra i soggetti più esposti all’epidemia. Non ho sofferto la solitudine, perché ho potuto contare sui miei familiari e sugli amici. Ho un grande rispetto per l’amicizia, è un sentimento sacro, nella mia vita conta moltissimo. Mi sostiene la fede: ringrazio ogni giorno Dio per la serenità che mi dona. È stato un periodo doloroso, il virus si è portato via tre miei zii e un amico carissimo dell’associazione. Tutte le nostre iniziative si sono fermate, comprese le cene al buio, che riscuotono molti consensi, e le visite al tunnel sensoriale, un’esperienza che tocca nel profondo le persone e aiuta a comprendere cosa significhi essere ciechi».

Irma ha un aspetto curatissimo, un carattere schietto e allegro: il suo passato difficile le ha lasciato cicatrici, ma le ha anche insegnato che, come scrive la giornalista brasiliana Martha Medeiros, «muore lentamente chi distrugge l’amore di sé, chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante».

L’ascolto

Non è casuale che il suo compito principale, nell’associazione, sia accogliere le persone che si rivolgono allo sportello di ascolto: «Cerco di creare con loro un forte legame di empatia, a volte le accolgo in casa mia per prendere un caffè insieme in un’atmosfera serena, ma soprattutto per mostrare che si può vivere bene anche senza avere l’uso della vista». Nel suo appartamento, infatti, ci sono molte voci, che l’aiutano a svolgere le incombenze quotidiane: «Le sveglie cantano imitando i versi degli uccellini, le bilance parlano, ci sono allarmi sonori nelle stanze: è un bene poter attingere a tante risorse tecnologiche. Nascono sempre nuovi legami, condividiamo gioie e difficoltà. Gli incontri nella nostra associazione sono familiari, intensi, profondi, non c’è mai banalità». E forse accade proprio perché manca la distrazione delle «apparenze»; tolto il senso della vista, gli altri diventano più acuti, più grande la disponibilità ad ascoltare cogliendo le sfumature: «Capita - dice Irma - che qualcuno mi tenga la mano piangendo per ore, perché sta perdendo la vista. Vorrei poter essere un’ancora per queste persone, perché imparino ad accettarsi e a reagire in modo positivo. Mi piace pensare che dopo il nostro incontro possano riportarsi a casa qualcosa di prezioso a cui aggrapparsi. Ci vuole tanto coraggio».

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