Edoardo Bennato in città il 1° dicembre: «Il successo duraturo? Istinto e stile irregolare»

Intervista a Edoardo Bennato, in concerto il 1° dicembre al Creberg Teatro.

Nei prossimi giorni arriva Edoardo Bennato a Bergamo, il 1° dicembre al Creberg Teatro. Recupera una data tra una tournée che non c’è stata e una che partirà l’anno prossimo (inizio ore 21; biglietti ancora disponibili). Il suo sarà un concerto antologico, una sorta di «preparazione» al «Peter Pan Rock’N’Roll Tour 2022».

Come vive il ritorno ai concerti, con la presenza del pubblico?

«In effetti, a causa di questa tremenda pandemia, siamo stati costretti a rinviare il Peter Pan R&R tour dal 2021 al 2022. Per fortuna il concerto di Bergamo siamo riusciti a recuperarlo nel 2021. Tengo particolarmente a questo appuntamento proprio per quello che il Covid ha causato lì nella vostra città. Spero di poter regalare qualche ora di serenità a chi vorrà venire».

Dopo «Uffa! Uffa!» e «Sono solo canzonette» è stato recentemente ripubblicato l’album «La torre di Babele» in una speciale edizione con una parte live d’epoca. Che effetto le ha fatto risentire quel materiale a 45 anni di distanza?

«Senza retorica credo che le canzoni contenute all’interno della “Torre di Babele” siano ancora attuali. L’umanità continua in maniera idiota a farsi la guerra invece di unirsi e tutti insieme cercare di salvare questo pianeta e, soprattutto evitare di alzare altri muri come in “Franz è il mio nome” dove sogna la libertà abbattendo il muro».

Nell’economia dei suoi dischi degli anni Settanta quanto è stata importante quell’uscita che accadeva in un tempo fortemente ideologizzato?

«L’importanza, ammesso che un disco possa essere importante, la dà il pubblico che ascolta e giudica. Sicuramente quegli anni erano fortemente ideologizzati, nel bene e nel male, c’era una coscienza politica molto forte; a volte anche troppa, non sempre “a proposito”».

Rimanendo sempre in quel decennio cruciale per la canzone d’autore e il rock in Italia che ricordi ha del clima musicale?

«Il clima musicale risentiva di ciò che era nelle strade. Ho cercato di spiegarlo nel brano “Cantautore”, in cui ironizzo sia su me stesso che sul “ruolo” a cui era stato assurto il cantautore: una sorta di messia da cui ci si aspettava che si schierasse apertamente o con una fazione o con l’altra... Per certi versi forse, è così anche oggi. Per quanto mi riguarda ho sventolato una sola bandiera, quella del rock, dove per rock si intende andare in direzione ostinata e contraria, cercando di evitare luoghi comuni, frasi fatte, moralismi insopportabili e, soprattutto, istigare dubbi contro facili e comode certezze».

Lei che è ritenuto uno dei più grandi e credibili rocker della scena italiana che dice a quelli che pensano che il rock è vivo perché i Maneskin hanno successo?

«I Maneskin mi piacciono e se hanno successo, riuscendo a scalfire, da italiani, il monopolio musicale anglo-americano, tanto meglio».

Pensando alla sua carriera viene da muoverle un «elogio alla durata» artistica, creativa. Qual è stata la chiave del successo al di là del significato di cui ha sempre pervaso le canzoni?

«Ho lavorato sodo, facendo una gavetta che è durata nove anni, prima di combinare qualcosa, ed ho avuto anche una buona dose di fortuna, che non guasta».

Ironia graffiante, qualche sberleffo, mai volgarità, impegno costante e irrinunciabile. Il suo, alla luce dei tempi, sembra uno stile irregolare. Si sente alternativo a questo presente?

«Non credo di sbagliare nel dire che sono sempre stato, più che alternativo, irregolare. Ho seguito il mio istinto. Qualche volta questa irregolarità l’ho anche pagata cara».

Pensa che oggi ci sia ancora desiderio di canzoni che dicano qualcosa, parlino al senso comune della gente, raccontino una storia, una favola, una metafora qualsiasi?

«Penso che, al di là dei contenuti, ci sia sempre bisogno di buona musica!».

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