«Genetica e Covid, un legame esiste
ma non è la sola cosa da scoprire»

di Alberto Ceresoli
Il prof. Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas, uno degli scienziati italiani più influenti al mondo, analizza lo stato dell’arte su quanto sappiamo del coronavirus. Cosa aspettarsi? «Penso alla grande Atalanta: abbiamo finito solamente il primo tempo».

Lo sappiamo curare ogni giorno sempre meglio, ma non lo conosciamo ancora bene, e solo da poche settimane intuiamo che una componente genetica in tutta la drammatica epidemia del Covid-19 esiste, anche se il «come» e il «perchè» sono ancora da scoprire. Il prof. Alberto Mantovani - patologo e immunologo, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito in Humanitas University, uno degli scienziati italiani più influenti nel mondo - traccia una quadro preciso di come stanno le cose a nove mesi dallo scoppio della pandemia da coronavirus.

Allora, professore, cosa sappiamo davvero di questo virus?

«Da cittadino, sono stati nove mesi molto lunghi. Da ricercatore, la prospettiva è diversa: ho assistito ad una rapidissima chiamata alle armi della comunità scientifica internazionale, che ci ha permesso di scoprire molte cose di questo virus, mettendo a fattor comune le conoscenze. Abbiamo imparato in che modo il Coronavirus Sars-CoV-2 sovverte le prime linee di difesa dell’organismo, ma anche che cosa il nostro sistema immunitario riconosce di questo virus. Abbiamo capito che una risposta infiammatoria fuori controllo è alla base delle forme più gravi della malattia. Recentemente, due articoli pubblicati sulla rivista “Science” ci hanno dato una percezione nuova di ciò che succede con Covid-19 alla nostra prima linea di difesa, l’immunità innata, solitamente risolutiva quasi nel 90% dei nostri incontri con i patogeni. Il primo studio ha evidenziato la relazione tra un difetto genetico dell’immunità innata con manifestazioni gravi della malattia. Il secondo studio, invece, ha dimostrato che in alcuni pazienti il sistema immunitario auto-aggredisce la prima linea di difesa e la blocca. Ancora troppe, tuttavia, sono le cose che non conosciamo del virus: non sappiamo, ad esempio, se e in quale misura gli anticorpi ci proteggano da un’eventuale reinfezione, quanto possa durare la memoria immunologica al virus indotta dalla malattia o dai vaccini che si stanno mettendo a punto, né se questi siano in grado di attivare una reazione efficace nelle persone anziane, in cui il sistema immunitario ha parzialmente perso la memoria».

Tre domande, una sola risposta. Perché è difficile trovare un vaccino? Perché è così difficile trovare il vaccino contro il Covid-19? Perché è così difficile trovare un vaccino contro il Covid-19 che vada bene per la più ampia fetta possibile di persone?

«Sviluppare un vaccino innovativo è una sfida che in tempi normali, non di pandemia, richiede da 8 a 12 anni: si cerca di farlo in 1-2 anni per Covid-19. E poi non sempre si ha successo. Non abbiamo, ad esempio, un vaccino efficace e risolutivo contro tubercolosi, malaria e il virus Dengue. Insomma è un’impresa rischiosa, come è rischiosa la ricerca scientifica innovativa. Non abbiamo mai fatto un vaccino efficace contro altri coronavirus. Potremmo inoltre avere bisogno di più di un vaccino, da utilizzare in modo complementare. Così è stata sconfitta la polio, non grazie a un vaccino, ma a due vaccini. E così l’Africa è stata dichiarata libera da polio poche settimane fa».

Se tutto andrà bene sarà pronto a fine novembre, a fine dicembre, a fine gennaio... Insomma, ogni giorno ne sentiamo una diversa... Secondo lei, tra quanto crede sia ragionevole ipotizzare la prima vera inoculazione di un vaccino validato e disponibile sul mercato per la popolazione mondiale?

«Al momento numerosi gruppi nel mondo sono impegnati a sviluppare un vaccino . Si sta davvero facendo tutto il possibile, ma non possiamo dimenticare che, normalmente, servono tempi molto più lungi. Sono solito ripetere che in questa corsa al vaccino, in realtà, non importa chi arriva primo, ma chi arriva bene, ossia con un vaccino sicuro ed efficace, che possa essere messo a disposizione di tutti, senza dimenticare le aree più povere del mondo».

Il rischio che il vaccino possa essere disponibile solo per una parte di popolazione e non per tutta è davvero reale? Possibile che le grandi multinazionali che ci stanno lavorando non riescano a cogliere fino in fondo la valenza etica, oltre che scientifica, di una simile scoperta?

«Il più grande produttore al mondo di vaccini (60% del totale) è in India, non quindi in un Paese occidentale, e la capacità produttiva totale planetaria di vaccini (tutti) è di circa 400 milioni di dosi al mese. Produrre un vaccino è ben più complicato rispetto ad un farmaco semplice. Sarà dunque necessario scegliere a chi dare priorità nell’accesso ad un eventuale vaccino nei Paesi ricchi e su scala globale. Il nostro Paese, insieme ad altri in Europa, ha stipulato contratti per avere accesso ad eventuali vaccini, e al tempo stesso si è impegnato con altri Paesi europei in un programma di condivisione. Siamo parte di GAVI (alleanza mondiale che ha l’obiettivo di migliorare la salute nei Paesi più poveri diffondendo le vaccinazioni) che ho servito per cinque anni e nel cui board ora siede Angela Santoni, che è al centro di un’iniziativa di salute globale di condivisione del vaccino (COVAX). Condivido il pensiero di Papa Francesco nell’ultima Enciclica: dal Covid dobbiamo uscire insieme».

L’influenza, quella che conosciamo bene, è arrivata con qualche settimana in anticipo rispetto al solito. Questo può provocare qualche problema oppure non incide nella situazione in cui ci troviamo?

«Le infezioni respiratorie e influenzali peggiorano con l’arrivo del freddo, che coincide anche con un maggiore tempo trascorso al chiuso, in ambienti poco arieggiati. È fondamentale prevenire la diffusione influenzale per aiutare i clinici a distinguere i sintomi del Covid da quelli dell’influenza, ma anche per consentire il normale svolgimento delle attività lavorative e scolastiche. Paradossalmente, Covid è stato un grande allenamento per la popolazione: l’uso della mascherina, il lavaggio delle mani e il distanziamento sociale cui tutti, ora, facciamo estrema attenzione sono le armi a disposizione per proteggere noi stessi e gli altri dal contagio, dell’influenza come del Covid. Per l’influenza però abbiamo un’arma in più che, quest’anno più che mai, abbiamo il dovere di utilizzare al meglio: il vaccino. Un atto di responsabilità sociale, per proteggere noi stessi e le persone più fragili».

Quanto è importante vaccinarsi contro l’influenza quest’anno?

«Premetto che ci sono tre vaccini consigliati per le persone della terza età: influenza, pneumococco e herpes. Personalmente li ho fatti tutti e tre. Come ogni anno mi vaccinerò contro l’influenza per diversi motivi. Il primo è ovviamente proteggere me stesso. Un secondo motivo, fondamentale, è proteggere le persone più fragili con cui vengo in contatto. Ancora, è ragionevole pensare che sia peggio avere due delinquenti in casa (influenza e Covid-19) che uno solo: non lo sappiamo con certezza per influenza e Covid, ma lo possiamo pensare sulla base di altre infezioni virali come Dengue e Zica. Ancora, dato che i sintomi di influenza e Covid-19 possono essere simili, vaccinandoci aiutiamo i nostri medici nella diagnosi. Infine i vaccini costituiscono un buon allenamento generale per il sistema immunitario. È ormai dimostrato da molti studi che le nostre difese naturali rispondono positivamente ai vaccini, perché imparano non solo a proteggerci dal patogeno contro il quale ci vacciniamo, ma anche da altre malattie non direttamente collegate ad esso. Si chiama “protezione agnostica” ed è dovuta almeno in parte a un allenamento e potenziamento dell’immunità innata. Agisce in questo modo, ad esempio, il virus contro il morbillo, che allena il sistema immunitario contro questa malattia ma dà anche una protezione contro altre infezioni respiratorie. È ancora dubbio che il vaccino antinfluenzale sia associato ad un effetto analogo, ma ciò non toglie che sia fortemente indicato per i soggetti più a rischio. Da scienziato, sono convinto sia un aspetto da approfondire per poter addurre dati certi, dal momento che innalzare il livello delle nostre difese di prima linea costituisce una strada promettente. Vaccini e stile di vita sono gli strumenti che abbiamo per allenare il sistema immunitario».

Dal 16 agosto ad oggi, nella Bergamasca, il Covid cresce la metà rispetto al dato Lombardo e i risultati dei test a cui è stata sottoposta la popolazione del Valseriana hanno rilevato che il 43% è risultato positivo al Covid e il 57 non ne è invece venuto in contatto. Nella nostra provincia può essersi sviluppata una sorta di protezione di gregge, anche se i numeri sono ancora lontani da quell’obiettivo?

«I dati sierologici che cita sono simili a quelli che avevamo ottenuto in un grande studio coordinato da Maria Rescigno su 4.000 soggetti della popolazione Humanitas in Lombardia, inclusa Humanitas Gavazzeni, uno studio subito messo a disposizione della comunità scientifica in Open Access e ora in stampa su una prestigiosa rivista scientifica. È ragionevole pensare che questi dati sottostimino il contatto con il virus, in quanto sappiamo che soggetti che non hanno anticorpi possono avere i direttori dell’orchestra immunologica (i linfociti T) pronti a rispondere. Tuttavia, non abbiamo stime certe del livello richiesto di “immunità del gregge” per Covid-19 e, soprattutto, non sappiamo quanto duri la memoria immunologica nei soggetti venuti a contatto con il virus. È ragionevole pensare che, in queste aree, il virus faccia più fatica a circolare a causa di un livello più alto di quella che io preferisco chiamare “immunità di comunità”, ma penso che si debba contare soprattutto sullo straordinario senso di responsabilità e solidarietà da sempre dimostrato da queste popolazioni».

Cosa dobbiamo davvero aspettarci con l’arrivo del freddo e dell’inverno? C’è il rischio che il Covid-19 possa rialzare la testa e presentarsi ancora più aggressivo?

«Premesso che non sono un infettivologo o un epidemiologo, posso dire che tutti i virus respiratori, inclusi altri coronavirus che causano polmoniti, apparentemente scompaiono durante il periodo di primavera-estate, per ricomparire con l’autunno e l’inverno. Possiamo usare la metafora di una partita di calcio (e penso alla grande Atalanta). Abbiamo superato il primo tempo pagando un prezzo altissimo: diminuire la concentrazione dopo l’intervallo o rientrando in campo, pensando che l’avversario sia esaurito, può fare perdere la partita nel secondo tempo. O ai supplementari o, addirittura, ai rigori».

A proposito di aggressività del Covid, è vero che con il passare dei mesi è diventato più «buono» o è sempre rimasto lo stesso?

«Sarei felice di poter dire che il virus è cambiato o è diventato più gentile, ma purtroppo non ci sono dati che lo dimostrino. Capita che il virus venga confuso con la malattia, ma si tratta di due cose diverse. L’esercizio di sequenziamento di 350 isolati virali in Lombardia sostenuto da Fondazione Cariplo ha dimostrato che non ci sono varianti attenuate del virus. I tre grandi studi disponibili su riviste scientifiche autorevoli sulla caratterizzazione di isolati virali in tutto il mondo non indicano che si siano diffuse varianti del virus attenuate. Tuttavia, la malattia che vediamo è meno aggressiva per vari motivi. Come detto, è come se fossimo a ridosso del secondo tempo di una partita di calcio che ha avuto l’intervallo in estate, quando le malattie respiratorie si attenuano. Ci comportiamo in modo responsabile nel proteggerci e nel proteggere le persone anziane, più fragili, e loro stesse si proteggono con mascherine. Con minor carica virale il nostro sistema immunitario ha più possibilità di tenere la malattia sotto controllo. L’età media delle persone infettate e malate è dunque molto più bassa e l’età è il primo fattore di rischio per la forma grave della malattia. Facciamo più tamponi e diagnosi in fase più precoce, interveniamo quindi rapidamente, prima che la situazione clinica peggiori drasticamente. Sono stati fatti progressi nella terapia. Tutto questo ha avuto effetto sul modo in cui la malattia si manifesta. Ricordiamo anche che siamo stati al centro di un vero e proprio tsunami e che in inverno, nel Nord Italia, il virus ha avuto un mese e mezzo di tempo per circolare e infettare persone prima che scattassero le misure di contenimento. Eppure siamo ancora il Paese più in sicurezza, e questo perché ci siamo comportati in modo responsabile. Dobbiamo continuare a farlo, non possiamo permetterci di abbassare la guardia».

Proprio qualche giorno fa è stato annunciato uno studio tra i residenti nei paesi di Albino, Alzano e Nembro per scoprire se e come in tutta questa triste storia possa avere un ruolo anche la genetica. Secondo lei, un ruolo ce l’ha?

«Il mondo scientifico è molto interessato al tema, come dimostrano alcuni studi usciti negli ultimi mesi, che testimoniamo il ruolo della genetica nella manifestazione della malattia da Coronavirus. Come detto, ad oggi sono stati scoperti collegamenti tra fattori genetici e gravità di Covid-19. Abbiamo condotto il primo studio di genetica della popolazione italiana in relazione a Covid-19 e uno studio europeo della scorsa primavera, cui ha partecipato anche Humanitas, ha individuato varianti genetiche sul cromosoma 3 dei pazienti con malattia grave, coinvolgendo in particolare geni dell’immunità che abbiamo contribuito a scoprire. Nello stesso studio europeo era emersa una correlazione con il gruppo sanguigno, ma mentre il cromosoma 3 è stato confermato, ci sono dubbi sui gruppi sanguigni. Così procede la ricerca scientifica, rimettendosi in discussione sulla base dei dati. La novità degli ultimi giorni viene dagli Usa (ma agli studi hanno partecipato gruppi italiani e sono guidati in parte da un “cervello fuggito” italiano) ed evidenza che il 3,5% delle persone che sviluppano sintomi gravi della malattia hanno difetti genetici della prima linea di difesa immunologica e fra il 2 e il 12 % hanno anticorpi “deviati”, che attaccano cioè il sistema immunitario anziché il virus. In sostanza, credo che sentiremo ancora parlare a lungo di genetica e Covid-19».

Nei mesi scorsi sono state moltissime le accuse al Sistema sanitario lombardo. Al di là delle oggettive criticità emerse, non trova che molte critiche siano state ingenerose e che il sistema abbia fondamentalmente retto di fronte ad uno «tsunami» abbattutosi con così tanta violenza e in maniera così rapida?

«Sono molto orgoglioso di quanto è stato fatto dalla Sanità italiana e lombarda. Sono state messe in campo tutte le energie e le competenze per giocare questa partita. Certamente il sistema va rafforzato a livello territoriale, ma parlare di tsunami non è un’esagerazione: ci siamo trovati ad affrontare ben due tsunami contemporaneamente, una situazione che nessuno in Italia e nel mondo occidentale ha dovuto fronteggiare. I dati di isolamento e sequenziamento di 350 isolati virali di cui si è detto, con studi sostenuti da Fondazione Cariplo e condotti dai virologi Carlo Federico Perno a Niguarda e Fausto Baldanti al San Matteo, hanno chiarito cosa è successo nel Nord Italia dal punto di vista virologico. Il virus è entrato almeno due volte in Lombardia, indipendentemente, a Codogno e nella Bergamasca, e ha circolato non identificato fino a fine febbraio. Due tsunami in un mare in tempesta rappresentato dalle usuali infezioni respiratorie stagionali».

Scuola, stadi, cinema, ristoranti e pizzerie... Quali sono le priorità che dobbiamo garantire?

«In questa situazione dobbiamo restare concentrati, perché la priorità assoluta è la scuola, direttamente collegata alla crisi economica. Nella scuola si gioca il futuro del Paese e la disuguaglianza sociale. Non tutti i bambini dispongono di una connessione Internet o di computer per poter seguire le lezioni da casa, e non tutti i genitori possono assentarsi dal lavoro per seguire l’istruzione dei propri figli da remoto».

Cosa pensa di quella che l’Oms ha definito «infodemia», ovvero un eccesso scoordinato di informazioni date in pasto all’opinione pubblica senza alcuna logica?

«Rispondo con la “regola delle tre R”, a cui cerco di attenermi: Rispetto dei dati, condivisi e accessibili nella comunità scientifica; Rispetto delle competenze, cerco ad esempio di non commentare curve epidemiologiche se non in termini generali; Responsabilità sociale, penso ad esempio all’impatto sui comportamenti dell’equiparare Covid-19 all’influenza o affermare, senza dati condivisi, che il virus si è attenuato. La comunicazione, sempre, e a maggior ragione in una situazione di emergenza come questa, non può non basarsi su queste tre “R” che tutelano il cittadino e la scienza stessa. Non seguirle può portare a gravi conseguenze, come dare false speranze ai pazienti - penso ad esempio alla comunicazione incontrollata sull’uso di farmaci la cui efficacia non è mai stata confermata - e portare a sfiducia nella scienza. Il filosofo Eraclito diceva che “la natura ama nascondersi”. Questa è da un lato una grande promessa, perché ciò che non sappiamo apre il campo all’indagine scientifica, ma dall’altro lato è anche una grande condanna. Perché, come ogni sapere, anche la scienza si compone di tasselli messi insieme un passo per volta, e questo non va d’accordo con un sistema che pretende certezze immediate e irremovibili».

Una domanda antipatica per una risposta brillante: non pensa che alcuni suoi colleghi avrebbero forse fatto meglio a seguire il vecchio detto secondo cui “un bel tacer non fu mai scritto”?

«Rispondo con un altro detto, che risale a Socrate, antico quanto la sapienza del mondo occidentale: “So di non sapere”».

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