Il «clown dottore» fa dimenticare
la malattia e cura tutti con una risata

A 40 anni ha scoperto il Parkinson. Da lì l’impegno nella clownterapia con la Croce Rossa.

«Ho gli occhi azzurri, sono alto 1 metro e 81 e ho il Parkinson». Alessandro Culotta, 46 anni, elenca con allegria tutte le sue «caratteristiche», fedele al motto: «Un giorno senza sorriso è un giorno perso». La malattia è entrata nella sua vita precocemente, l’ha cambiato moltissimo ma non gli ha fatto perdere l’atteggiamento positivo: «La diagnosi è arrivata nel 2014 e nello stesso anno sono entrato nel gruppo Clown MaYha della Croce Rossa». L’attività di «clown dottore» lo porta negli ospedali, nel carcere, nelle comunità di accoglienza «sempre accanto a persone vulnerabili» a Milano, dove risiede, a Bergamo e a Seriate.

«Se ripenso al mio passato – dice –, non conservo memoria delle persone tristi, negative, problematiche, ricordo solo quelle che mi hanno trasmesso gioia, e anch’io vorrei essere sempre così».

I primi sintomi del Parkinson si sono manifestati dopo un banale incidente con lo scooter: «Mi sono fratturato un dito e dopo aver indossato il gesso per un mese, mi sono reso conto che non riuscivo più a muovere bene la mano. Nello stesso tempo si sono manifestati anche altri problemi motori: trascinavo un po’ una gamba, la mia grafia non era chiara e definita come prima, le persone non mi comprendevano quando parlavo, quindi ho incominciato a preoccuparmi. Mi hanno sottoposto a una serie di approfondimenti ed esami neurologici che non hanno dato buon esito, finché è arrivata la diagnosi. I medici ci hanno impiegato un po’ perché a quarant’anni s’immaginavano che potessi avere altre patologie, ma questa l’avevano esclusa».

Non è stato facile all’inizio accettare la situazione: «Quando il medico mi ha comunicato che avevo il Parkinson aveva un’espressione triste. Per prima cosa gli ho chiesto se mia figlia, che ha 13 anni, corresse il rischio di contrarre in futuro la stessa patologia: mi ha rassicurato, perché non è ereditaria. A quel punto mi sono accorto che era più depresso di me e gli ho raccontato una barzelletta su un vecchio parkinsoniano che sfrutta i suoi tremori per fare colpo sulle donne. Così quando ci siamo salutati, sorridevamo entrambi. Una volta tornato a casa, però, mi è caduto addosso il mondo».

Per un po’ Alessandro si è smarrito, arrabbiato e isolato: «All’inizio mi sono posto molte domande, poi mi sono reso conto che quella condizione fragile, in fondo, non era soltanto mia e che potevo affrontarla. Ho trovato la forza di reagire, di godermi i momenti belli, anche se c’è sempre un sottofondo d’inquietudine, come una vocina sottile che mi sussurra che il mio amico Parkinson sarà sempre con me».

Alessandro ha deciso di riprendere il ritmo e le attività di sempre, con i suoi tempi, con i mezzi che aveva, rispettando i suoi nuovi limiti fisici e cercando di mettercela tutta: «La mia vita è cambiata drasticamente – racconta –, la malattia ha sicuramente rivoluzionato la mia prospettiva sul mondo, il modo in cui guardo e considero le persone. Ha cambiato le mie priorità, ha dato un nuovo valore ai gesti e agli avvenimenti di ogni giorno. Do più importanza a cose che prima davo per scontate».

Le reazioni delle persone che aveva intorno sono state diverse e a volte sconvolgenti: «C’è stato chi ha continuato a trattarmi come se niente fosse, chi ha incominciato a compatirmi, come un povero disabile, a guardarmi come se mi fosse spuntata una pinna sulla schiena, e poi ci sono quelli che sono completamente spariti, forse perché temevano la malattia e non sapevano più come trattarmi. Non è stato così facile accettarlo». Nello stesso periodo Alessandro stava partecipando a un corso della Croce Rossa per diventare «operatore del sorriso»: «Ho incominciato l’attività di volontariato nella Cri già nel 2010 – spiega – e fin dall’inizio avevo l’idea di dedicarmi alla clownterapia. C’era qualcosa che mi spingeva verso questa particolare forma di volontariato. Quando ero più giovane, ho fatto l’animatore nei villaggi, e ho sempre avuto una speciale inclinazione per l’allegria e la confusione, mi sembravano delle buone premesse. In seguito, però, mi sono accorto che per stare accanto alle persone più fragili non occorrono fuochi d’artificio, trucchi, effetti speciali: basta saper ascoltare e saper comunicare in modo efficace e semplice. Mi capita di incontrare persone di ogni età, colore e con problemi diversi, dalle malattie neurodegenerative alla pneumologia, da tetraplegici e paraplegici ai malati oncologici».

Ogni incontro in corsia è come un viaggio: «Quando entro in una stanza per prima cosa devo scoprire con chi ho a che fare. Il mio compito è interrompere la routine quotidiana, spezzare le idee fisse, aiutare le persone a dimenticare per un po’ i loro problemi, spingerle a creare nuove relazioni. A volte può essere utile divertirle con i palloncini, oppure incantarle con un gioco di prestigio. Spesso però basta sorridere, ascoltare, parlare con loro, aiutarle a prendersi il proprio spazio, a respirare».

È stato prezioso per lui il sostegno dell’Associazione italiana parkinsoniani (Aip): «Ho incominciato a documentarmi sulla malattia subito dopo la diagnosi. Ho incontrato prima l’associazione di Milano, poi il gruppo lombardo dei giovani, di cui fanno parte anche alcuni bergamaschi. Attraverso amici comuni ho conosciuto anche la sezione di Bergamo e il suo presidente Marco Guido Salvi. Ho partecipato al loro convegno annuale e ho iniziato a collaborare con il gruppo “Teatro e tremore”. Negli spettacoli faccio il clown disturbatore, quello che entra nel mezzo della scena e fa qualche dispetto agli altri attori, rivoluzionando la situazione, per portare un po’ di scompiglio e divertimento in più».

Alessandro lavora come consulente informatico per una multinazionale americana: «Continuo a svolgere tranquillamente la mia professione, i miei colleghi conoscono le mie caratteristiche e fortunatamente questo non ha mai rappresentato un problema. Ho dovuto, certamente, rinunciare a qualcosa: non posso più svolgere servizio sulle ambulanze e neppure partecipare alle corse in motocicletta che prima erano la mia passione. Per il resto, però, la mia attività quotidiana è rimasta la stessa di prima. Sono cambiati un po’ i miei hobby, ora mi appassiono alla programmazione neurolinguistica e alla comunicazione. Sono impegnato nella Croce Rossa anche come formatore e come istruttore di primo soccorso».

È in servizio come clown per due volte al mese: «Mi è capitato anche di avere a che fare con altri Parkinsoniani, ed è più facile creare un legame di empatia con loro, perché conosco bene il mondo in cui vivono. Sono incontri un po’ più faticosi per me, più difficili da gestire, perché mi rispecchio in questi malati. Mi è prezioso il sostegno continuo che ci assicura lo psicologo del nostro gruppo di clown, che ci ha insegnato tecniche di rilassamento e di “scarico” molto utili in queste situazioni». Lo stile e il ruolo che Alessandro interpreta come clown sono cambiati nel tempo, la sua sensibilità si è affinata: «In ogni coppia comica, come per esempio quella di Stanlio e Ollio c’è un clown rosso che mette in moto l’azione, crea caos e combina guai e uno bianco apparentemente più serioso e obbediente ma altrettanto divertente. Ho iniziato come un “rosso” ma poi ho scoperto altre inclinazioni, se prima facevo i palloncini più belli del mondo, poi mi sono appassionato all’ascolto e all’osservazione delle persone, ogni volta è una sorpresa, una scoperta: uso meno giochi e trucchi, più silenzi, parole e sorrisi». I clown non viaggiano mai da soli: «Il nostro è un lavoro di squadra, ci spostiamo a gruppi. C’è una forte collaborazione anche tra sezioni diverse dell’associazione, per esempio in ambito lombardo spesso ci scambiamo e facciamo i turni tra le diverse strutture. L’incontro con i pazienti è imprevedibile e a volte possono capitare anche momenti difficili, bisogna essere pronti a sostenersi a vicenda, a subentrare e a dare una mano se si capisce che qualcuno è stanco e non ce la fa. L’attività di clownterapeuta secondo la mia esperienza può diventare perfino più impegnativa di quella di un operatore di pronto soccorso. Nei servizi d’emergenza bisogna applicare protocolli precisi, provvedere al trasporto e poi affidare il resto del lavoro al personale sanitario. Il clownterapeuta, invece, deve mettersi in gioco con tutte le sue caratteristiche, le sue emozioni, e avere a che fare con la sfera intima delle persone. Bisogna stare molto attenti a non urtare la sensibilità dei pazienti».

Anche nel percorso di Alessandro sono capitate situazioni complesse: «Una volta entrando in una camera dell’ospedale di Bergamo ho incontrato due pazienti oncologiche che per combinazione si chiamavano proprio come due mie parenti che se n’erano andate da poco, sconfitte dal cancro. Ho provato profonda commozione e ho avuto un momento di sconforto, ma sono riuscito a superarlo grazie all’appoggio degli altri amici clown».

Nel tempo ha continuato ad approfondire la sua formazione: «Ho ottenuto la qualifica di “clown dottore” di terzo livello, che ha un’impostazione più approfondita nell’approccio con i pazienti. Mi piace molto questa attività, mi dona un entusiasmo che si trasmette anche al resto della mia vita. L’esperienza associativa è stimolante, permette di incontrare molte persone e stringere belle amicizie. Non posso dire di essere sempre felice, ma sono certo che - nonostante il Parkinson - la vita sia bella e che valga la pena di viverla con coraggio fino in fondo, senza mai perdere il sorriso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA