«Il Parkinson già a 17 anni, adesso a 55
apprezzo anche ogni piccolo gesto»

Massimo Manara era un pescatore di professione, ma ha dovuto rinunciare. Il sollievo nelle terapie a Trescore. «Vorrei dire alle persone di non dare niente per scontato, di godersi ogni minuto della vita».

C’è un punto in mezzo al lago in cui l’aria sembra ferma e nell’acqua al mattino, prima dell’alba, si specchia la luce delle stelle. È lì che Massimo Manara torna col pensiero, ai momenti trascorsi sulla sua barca da pescatore, per sentirsi di nuovo immerso nel silenzio, pronto a nutrirsi di quella che per lui è la migliore medicina, la bellezza, anche adesso che i suoi movimenti sono incerti e non può più andarci da solo. Sono passati trentotto anni da quando ha ricevuto la diagnosi di Parkinson: allora ne aveva 17, era ancora un ragazzo pieno di sogni, ora ne ha 55 e nel suo sguardo si legge la forza di chi non si arrende. Nel frattempo ha attraversato molti deserti, molte complicazioni, la sua famiglia è andata in pezzi, ha tentato la strada della Dbs, Deep Brain Stimulation, ha dovuto accettarne il fallimento, è caduto in una profonda depressione, ma pian piano, un pezzo alla volta, è riuscito a rialzarsi. La sua storia dimostra che davvero, come scrive Winston Churchill: «È il coraggio di continuare che conta». Vive a Mandello del Lario, in riva al lago di Como, ma da tre anni fa il pendolare all’ospedale di Trescore Balneario per le terapie, la riabilitazione e gli incontri di «Popping for Parkinson», un’attività di danzaterapia creata dal coreografo Simone Sistarelli per contrastare i disturbi legati a questa malattia, come il tremore e la rigidità muscolare.

«Tutte le persone che incontro all’ospedale di Trescore – racconta –, i medici, gli infermieri, gli altri malati sono diventate come una seconda famiglia: ci facciamo forza l’un l’altro. Non solo trovo sollievo dal punto di vista fisico, ma riesco a recuperare energia e buon umore, per continuare la mia vita nonostante tutte le difficoltà. Lì mi sento libero, accolto così come sono, senza essere giudicato per le mie difficoltà di movimento, come a volte accade per strada, ed è una cosa che mi mette davvero a disagio. Mi piacerebbe essere guardato perché sono un bel tipo, non perché cammino come uno zombie».

Amava il canotaggio

Prima del Parkinson Massimo era un ragazzo allegro e sportivo che amava il canottaggio: «Non pensavo proprio che mi potesse capitare una cosa simile. Quando ho incominciato a notare tremori, strani movimenti, fino a sentire le gambe che si inceppavano e si irrigidivano, come se fossi un robot, gli specialisti che mi hanno visitato hanno preso in esame tutte le ipotesi possibili: epilessia, perfino un tumore al cervello. Mi hanno ricoverato in ospedale per quaranta giorni, mi hanno sottoposto a mille esami, rivoltandomi come un calzino, e poi mi hanno detto quelle poche parole, malattia di Parkinson: neanche sapevo cosa volessero dire. Così è iniziato il mio calvario. Non voglio lamentarmi, lo so che c’è di peggio, però la mia vita da allora non è stata mai facile».

Ha iniziato le terapie, e Mr Parkinson gli ha concesso un lungo periodo di tregua, quella che i medici chiamano «luna di miele»: «Per diciott’anni la mia vita è proseguita quasi indenne. Lavoravo in un’officina meccanica, nel tempo libero andavo a pescare. Avevo una piccola baita, in montagna, dove tenevo alcuni animali e allevavo gli storioni. Mi sono sposato, ho trascorso degli anni felici. A un certo punto, però, uno dei farmaci che assumevo è uscito di produzione, e le mie condizioni, lentamente, sono peggiorate».

Quando ha compiuto quarant’anni è rimasto senza lavoro e ha preso la decisione coraggiosa di aprire una piccola pescheria: «Ho scelto di trasformare in un mestiere la mia passione per la pesca: uscivo con la barca al mattino presto, quando era ancora buio, e tornavo quando incominciavo a capire che l’effetto dei farmaci si stava attenuando. Mi piaceva stare a contatto con la natura, e mi sentivo libero e ancora capace di badare a me stesso, di sconfiggere i sintomi del male». Ha resistito finché ha potuto, forzando con tenacia i limiti sempre più evidenti del suo corpo.

L’amicizia con le «Iene»

In quel periodo ha conosciuto Matteo Viviani, conduttore de «Le Iene» in tv, e ha deciso di raccontargli la sua storia: «Ci sono tanti pregiudizi sul Parkinson - spiega Massimo - molti sono ancora convinti che sia la patologia di un vecchio che trema, ma non è così, il mio percorso lo dimostra. Sono stato uno dei primi a portare all’attenzione pubblica la forma giovanile di questa malattia». Nel suo caso all’origine c’è la mutazione di un gene, il Park 2. La sua vita era divisa in due: la linea di separazione era segnata dall’efficacia dei medicinali, che col passare del tempo copriva una parte sempre più breve della giornata. I neurologi che lo seguivano gli hanno consigliato di ricorrere alla Dbs, la stimolazione cerebrale profonda (Deep brain stimulation) che consiste nell’impianto chirurgico di elettrocateteri nelle zone del cervello deputate al controllo dei movimenti. L’intervento è andato bene: «Ne ero felice - racconta Massimo - mi sembrava davvero di aver ritrovato me stesso, ma il miglioramento è durato pochissimo, a causa di un’infezione: una complicazione molto rara, che capita in un caso ogni 35 mila, e purtroppo è toccata a me. Non mi sono fatto mancare niente».

Così Mr Parkinson ha continuato ad avanzare, erodendo la sua autonomia, togliendogli la possibilità di lavorare e di tornare nella sua baita. La moglie l’ha lasciato, e Massimo è caduto in una profonda depressione: «Ci sono stati momenti davvero oscuri - spiega - in cui mi sembrava che ormai la vita non avesse più senso, non avevo più speranze, avrei voluto farla finita. Mi ha aiutato molto Matteo Viviani che si è comportato davvero da amico, ha continuato a venirmi a trovare e quando mi ha visto così a terra mi ha dato una bella strigliata, spingendomi a ritrovare in me la voglia di lottare, di restare fedele a me stesso. Gli sono molto grato per questo, mi ha salvato». Nel frattempo Massimo ha conosciuto anche Giulio Maldacea, presidente del Comitato italiano associazioni Parkinson, ha iniziato a confrontarsi con altri parkinsoniani, a partecipare ad attività sportive e ricreative promosse dalle associazioni, dai viaggi in barca a vela fino ai «soggiorni terapeutici» alla «Casa di Tremolo» di Caprezzo, in provincia di Verbania, all’interno del Parco Nazionale della Val Grande, una scuola di educazione al movimento nella malattia di Parkinson. «Sono entrato nel gruppo - dice -, non posso fare molto fisicamente ma trovo importante poter scambiare idee, condividere progetti e contribuire a realizzarli». Proprio durante uno di questi meeting Massimo ha incontrato la neurologa Cristina Rizzetti: «Le ho detto che ero stufo di essere forte, e lei mi ha proposto un ricovero all’ospedale di Trescore per rimettermi in sesto. Ho deciso di provare, e si è rivelata una scelta vincente. Ogni volta che ci vado mi sembra di rinascere, mi sono sentito subito in sintonia con lei anche sotto l’aspetto umano, è importante avere accanto un medico che si preoccupi anche della condizione generale del paziente, non solo della malattia». Gli pesa la distanza che Mr Parkinson crea tra il pensiero e l’azione, l’idea e la sua realizzazione: «È brutto non essere in grado di comandare un movimento semplice come camminare, che normalmente viene spontaneo. Se voglio alzarmi dalla sedia e arrivare fino al lavandino devo pensarci su, progettare, provare, conquistare l’obiettivo a prezzo di sforzi enormi, perché io so cosa voglio fare, ma il corpo non mi dà retta. La lotta con se stessi è terribile perché non si può vincere, ed è una cosa che ti umilia, ti distrugge, ti fa sentire inutile. Chissà cosa sarei stato capace di fare se avessi avuto la salute, avrei spaccato il mondo, invece sarà per la prossima vita».

Il valore dell’amicizia

In questa, intanto, ha sperimentato il valore dell’amicizia, la capacità di accettare le proprie fragilità e di lasciarsi aiutare: «Non ho più la patente e non posso andare a pescare da solo, ma ho amici fraterni accanto che mi stanno vicino».

Massimo vorrebbe che ci fosse più attenzione per questa patologia e per chi ne soffre, anche per quanto riguarda la ricerca medica: «Vorrei che questo messaggio arrivasse a tutti, non per farci compatire, ma per far capire alla gente che può capitare a chiunque, la mia non è una patologia che riguarda solo gli anziani. In Italia ci sono oltre 30 mila malati di Parkinson sotto i 50 anni. Quello che mi fa più rabbia è che non si sa perché. Vorrei far capire alle persone di non dare niente per scontato, di godersi ogni singolo minuto della vita perché non si può mai sapere che cosa accadrà. Un malato di Parkinson impara ad apprezzare anche piccoli gesti che per gli altri sono abituali, e per lui invece sono conquiste quotidiane, come alzarsi in piedi e spostarsi da una stanza all’altra. Noi che siamo malati apprezziamo anche le piccole cose. È una lezione che la pandemia ci ha insegnato con particolare evidenza, togliendoci le nostre abitudini, costringendoci a rinchiuderci in casa e a stare lontani da parenti e amici».

Massimo ricorda con piacere i momenti in cui faceva scivolare la sua barca sul lago, gettava le reti e restava lì, ad aspettare: «Mi sembrava di essere in paradiso. La sera andavo a dormire con l’aspettativa di poter partire, al mattino, non tanto per la pesca in sé, ma per la voglia di uscire, respirare, e stare in mezzo alla bellezza». Ora gli è rimasto il ricordo, un’immagine che più di tutte continua a riempirlo di serenità e lo fa sentire in pace con se stesso, lo stimola a non arrendersi, perché «l’unica lotta che si perde - come scrive Rigoberta Menchù - è quella che si abbandona».

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