Inchiesta Terre alte. «Turismo, puntiamo sull’ospitalità diffusa col recupero delle baite»

L’inchiesta. Michele Corti, docente universitario: «Finita l’epoca delle seconde case. Panchine e ponti tibetani? Mode che passeranno».

Continua l’inchiesta sulle Terre alte de «L’Eco di Bergamo». Michele Corti, 66 anni, di origini milanese, docente di zootecnia montana all’Università di Milano, promotore del Festival del pastoralismo che si tiene nella nostra provincia e titolare del portale web Ruralpini, affronta il futuro della montagna, tra spopolamento, turismo e vecchia e nuova agricoltura.

Professor Corti, la montagna, in particolare quella bergamasca, sta vivendo un periodo in chiaro scuro: da una parte lo spopolamento, dall’altra la riscoperta durante il periodo di pandemia, in chiave turistica, ma anche di chi la sceglie per cercare spazi all’aperto. Come vede il suo futuro?

Lo spopolamento per fortuna non è un fenomeno di insieme. C’è ancora un travaso dalle alte valli alle basse, dai piccoli ai grandi centri. Certo il quadro del popolamento cambia, la presenza dell’uomo si dirada e i centri più lontani dalla pianura sono in affanno demografico. Il controflusso (chi torna o chi decide di vivere in montagna abbandonando la città) non basta a compensare le perdite della scarsa natalità ma anche delle famiglie giovani che scendono a valle. Intanto le soluzioni miracolistiche non esistono. Regalare le case e portare la fibra non è sufficiente. Quindi piuttosto che regalare le case a cittadini in fuga aiutare i residenti a sistemare quelle che abita.

Carenza di servizi e lavoro sono intrecciati con lo spopolamento. C’è una ricetta per invertire la tendenza?

Anche per il lavoro occorre prima non far perderlo a chi lo esercitava. Nei piccoli centri serve una deregolamentazione e defiscalizzazione radicale. La gente deve poter svolgere più attività senza affrontare giungle burocratiche e autorizzative. Un piccolo negozio, un’osteria devono essere considerati nei piccoli centri come le attività svolte in ambito privato e famigliare. Un villaggio è una grande famiglia e tutte le attività di servizio e commerciali al suo interno non devono pagare tasse e non devono essere sottoposte alle norme che hanno senso per imprese commerciali ben più grandi. Così la piccola comunità diventa molto in grado di prestare servizi al suo interno e si aprono prospettive di occupazione (anche orientata al turismo diffuso).

Trentino e Valle d’Aosta hanno un’altra marcia: dipende solo dai soldi o ci sono altre motivazioni?

Intanto non è tutto oro quello che luccica in facciata. In entrambe le realtà vi sono grandi contraddizioni (specie in valle d’Aosta). Vi è stato però un impegno costante nel migliorare i servizi turistici, nell’evitare quel disordine e degrado urbanistico che ha molto compromesso la qualità estetica dei nostri centri abitati, nel costruire un’immagine turistica. La «marcia» è frutto di decenni di sostegni e di politiche e di un certo dirigismo (da noi mal sopportato) e assistenzialismo. Potremmo averla anche sulle Orobie la «marcia in più» (quella che i montanari bergamaschi hanno avuto per secoli). Ma ci vuole una direzione di marcia coerente e perseverante, serve remare nella stessa direzione.

Abbiamo poi intervistato Federica Burini, geografa, professoressa dell’Università degli Studi di Bergamo e presidente del corso di laurea magistrale in Planning and management of turism system (Pianificazione e gestione dei sistemi turistici), che si propone di formare professionalità che sappiano leggere le potenzialità turistiche del territorio e valorizzarle.

Professoressa, cosa possiamo dire del turismo nella Bergamasca?

L’idea che abbiamo, e che in questi anni si è rafforzata, studiando e incontrando il territorio, è quella che il turismo nelle Prealpi Orobiche sia stato un’esperienza e un fenomeno che non è stato cercato, ma che si è sviluppato a partire da fattori esterni. Questo probabilmente ha influenzato il fatto che, in termini storici, in quest’area manca una cultura del turismo.

Fattori esterni di che tipo?

Di stampo imprenditoriale. Se ci pensiamo, le prime forme di turismo che abbiamo visto nelle valli sono state forme d’élite, le stesse che hanno costruito il paesaggio liberty delle Prealpi Orobie. Una costruzione esterna, portata da una borghesia esterna al territorio che le comunità si sono trovate «in n casa», con cui dover convivere

Poi cosa è successo?

Qualcosa è cambiato nel periodo post-bellico. Negli anni Cinquanta e Sessanta le comunità hanno ricevuto in modo passivo un altro modello, quello delle seconde case. Oggi viviamo un altro tempo, una terza fase caratterizzata dall’essere il «post pandemia». La pandemia e il cambiamento climatico ci stanno dando tanti input per poter cambiare direzione. Non possiamo permetterci di non considerare il valore del turismo sul territorio, ma dobbiamo guardare anche ai rischi che questo può portare.

Quali rischi?

Quelle che definiamo le «patologie» del turismo di oggi: il turismo di massa, quello fatto da una concentrazione di grandi numeri di persone in uno stesso punto.. Un esempio di qualcosa che potrebbe essere molto virtuoso è quello delle «panchine giganti». Virtuoso perché si tratta di un’iniziativa che accompagna alla scoperta del paesaggio attraverso un tratto di cammino di almeno dieci minuti. Ma concentrandoci solo sul luogo della panchina e su quel pezzo di panorama, si esclude la possibilità di incontrare le altre realtà. Si arriva alla panchina, ci si scatta un selfie e poi, di tutto questo, cosa rimane sul territorio se non la parte social e di immagine? La panchina va agganciata in rete ad altri aspetti per la valorizzazione vera e diffusa di tutto il territorio, nel suo complesso. Altrimenti non si fruisce del lavoro delle comunità per la costruzione di quei territori.

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