«Maria, 33 anni, una gran lavoratrice
Semplicemente una bergamasca vera»

Adele, Nadia, Vincenzo, Claudia, Cristian. E Maria, «semplicemente una bergamasca vera». Luca Zenoni ha perso tanti amici nell’attentato compiuto venerdì sera dai miliziani dell’Isis in un ristorante a Dacca, capitale del Bangladesh.

Lui, manager di Leffe residente a Hong Kong, ha appreso la notizia da una drammatica telefonata di Gianni Boschetti, unico sopravvissuto alla strage. Zenoni conosceva quasi tutte le vittime. Con loro ha diviso le fatiche del duro lavoro lontano da casa, lo stesso a cui Maria Riboli si dedicava con impegno da tanti anni. «Una persona stupenda, bergamasca vera: lavorare, lavorare, lavorare – racconta Zenoni –. L’ho conosciuta nel 2010 in un club, dove si ritrovano i pochi italiani che vivono o lavorano in Bangladesh. Me l’ha presentata il suo titolare Luca Tassetti: “Ecco, questa è Maria”. Ricordo esattamente l’istante in cui le ho stretto la mano. Aveva 28 anni ed era uno dei primi viaggi che faceva. Mi è subito sembrata di una simpatia unica. L’impressione non era sbagliata». Come gli altri italiani imprenditori o dipendenti di aziende tessili, Maria Riboli aveva il compito di controllare la produzione dei tessuti delle collezioni future.

«Significa che si visitano le fabbriche, si verifica il lavoro degli operai. Probabilmente in questi giorni si dovevano commissionare gli ordini per le produzioni invernali dell’estivo 2017». Il racconto di Luca Zenoni si interrompe spesso. Solo con coraggio il manager bergamasco rompe il doloroso silenzio. «Mi ha chiamato Gianni (Boschetti, ndr) poche ore dopo l’attentato, mi ha raccontato tutto. Era nel giardino del locale quando ha sentito un’esplosione fortissima. Voleva rientrare per prendere la moglie Claudia, ma l’istinto l’ha portato a nascondersi in un arbusto e poi scappare. Sua moglie purtroppo non ce l’ha fatta». Zenoni ricorda anche Cristian Rossi, padre di due gemelline di appena 3 anni, e Vincenzo D’Allestro, 46 anni, anche lui imprenditore del settore tessile.

«Ho lavorato con tutti loro in Bangladesh. D’altronde, in quel Paese eravamo poco meno di 200 italiani tra cui molti monaci delle organizzazioni non governative. Il resto sono dipendenti di aziende tessili. Trovarsi era come stare in una grande famiglia. Ci si vedeva all’ambasciata oppure in alcuni club. Era uno dei pochi momenti di evasione in un paese molto problematico. Sei anni fa però non c’era la tensione che c’è ora. Io mi sono trasferito a Hong Kong e la mia azienda ha deciso di limitare gli spostamenti in Bangladesh proprio per garantire più sicurezza. Negli ultimi anni la ricchezza di questo Paese è aumentata in modo esponenziale, ma il livello di povertà è rimasto sempre lo stesso. Si è creato un terreno fertile per il proselitismo. Di fronte a questa strage, però, è davvero difficile trovare una spiegazione».

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