Moro: «Il Manaslu un’altra lezione.
Saper perdere poi aiuta a vincere»

L’ho scritto nei miei libri, ripetuto più volte nelle mie conferenze, è diventato quasi un mantra. «Bisogna saper perdere, aver fallito, per imparare ad essere un giorno anche un grande vincente».

Prove ed errori rappresentano il modo con cui l’uomo apprende, impara a camminare, muoversi e in questo modo a crescere, sempre per prove ed errori, affinando le abilità, si passa dalla mediocrità all’eccellenza, fino ad arrivare in alcuni casi all’eccezionalità. Ma anche quando si è arrivati al massimo livello, si continua a sbagliare. La metafora del salto in alto è calzante. Anche chi vince un olimpiade in questa disciplina, chi stabilisce il record, non supera mai tutte le asticelle al primo colpo e più si vuole vincere, più si deve accettare di abbatterla per tutti e tre tentativi disponibili. L’alpinismo non fa eccezione ma la grande, grandissima differenza è che se si sbaglia, si valuta male o ci si ostina a perseverare oltre ogni evidenza, si rischia seriamente di non tornare più a casa.

Quasi trent’anni fa un grandissimo esploratore e scalatore di nome Riccardo Cassin mi disse: «Simone ricordati che non sarà per te difficile diventare un grande alpinista, ma sarà invece molto più complicato diventare un grande vecchio alpinista». Una frase con cui lo stesso Cassin, morto a 101 anni, mi stava sottolineando come sarebbe stato dannatamente importante saper rinunciare, interrompere salite troppo pericolose, esposte, a rischi repentini o imminenti cambiamenti climatici. Ho fatto mio questo consiglio e ho imparato a non pensare mai agli eventuali commenti della gente, degli sponsor, dei colleghi, dei nemici. Bisogna imparare a essere autonomi, ragionare secondo i propri valori e sensibilità, e prendere con grande serenità anche la decisione di rinunciare. Perché la rinuncia non è un fallimento, ma la posticipazione del successo. Un altro concetto in cui credo e che sta alla base di tanti miei risultati storici.

Dal Nanga Parbat, tentato 4 volte, allo Shisha Pangma su cui mi sono cimentato due volte, al Makalu al centro di altre due spedizioni: tre esempi di scalate storiche che sono passati da fallimenti precedenti, dove ho imparato, analizzato errori e affinato strategie. Dopo oltre sessanta spedizioni, che tutte assieme coprono l’incredibile lasso di quasi 15 anni, essere ancora vivo e con tutte le dita delle mani e dei piedi al loro posto, significa avere avuto decisamente tanta fortuna, ma altrettanta abilità nell’aver saputo rinunciare o vincere a tempo debito. Sono insomma diventato un alpinista soddisfatto e che ha potuto passare la soglia del mezzo secolo di vita, afferrando con identico entusiasmo la personale decisione di rinunciare o di proseguire verso la vetta.

Non ho mai legato la parola successo al luogo fisico in cui la mia azione si è interrotta. Che fosse la cima o solo campo 1, il successo per me è sempre stato tornare a casa vivo, con un’esperienza da analizzare ed una storia da raccontare, un insegnamento da narrare. Oggi i migliori alpinisti del mondo, a partire da quelli polacchi mi hanno affibbiato il soprannome di «winter Maestro», un appellativo che mi onora e che mi responsabilizza ancora di più. Se infatti fosse vero che io sono il maestro delle invernali vorrei che si imparasse e che io riuscissi a insegnare anche questa volta al Manaslu, che la felicità e il successo non sono una destinazione come potrebbe essere la vetta, ma un percorso. Il nostro obbiettivo non è solo viverlo ma farlo durare più a lungo. Il segreto è continuare a saper perdere per lavorare e cogliere pazientemente i momenti di successo.

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