Profughi, primi rientri in Ucraina da Bergamo

Il ritorno in patria Una quindicina di rifugiati sono partiti per Kiev e le città dell’Ovest. Gli arrivi sono fermi. «Alcune attività lavorative hanno ricominciato a operare, i negozi riaprono e c’è necessità di ricostruire».

Voglia di tornare in patria, nelle proprie case e vicino ai familiari rimasti sotto le bombe a difendere le città dagli attacchi nel nemico. La guerra in Ucraina non è finita, tuttavia anche dalla provincia di Bergamo è iniziato il fenomeno a ritroso del rientro di alcuni rifugiati nello Stato che da due mesi è sotto l’attacco dell’esercito russo. Le prime partenze si sono registrate alla fine della settimana passata, alla vigilia della Pasqua ortodossa, che in Ucraina, come negli altri Paesi dell’Est, si è festeggiata domenica scorsa: una quindicina di persone, tra quelle accolte dalla Caritas e alloggiate negli appartamenti della provincia, hanno già lasciato l’Italia.

Verso Kiev e le città dell’Ovest

«Hanno riconosciuto la nostra disponibilità ad accoglierle – ha detto il direttore della Caritas, don Roberto Trussardi –, ma hanno preferito rientrare per scelta personale. In patria hanno figli, mariti, fratelli e altri parenti, molti dei quali non hanno mai lasciato l’Ucraina per difendere le loro città dall’attacco dei russi. Alcune di queste persone hanno fatto rientro a Kiev, o nelle vicinanze, altre nelle città dell’ovest del Paese, dove la guerra non è mai arrivata in maniera massiccia». Dai racconti di chi, in Italia, è in contatto con parenti e amici nella capitale, arrivano notizie di una normalità che la popolazione ucraina sta cercando di riconquistare, dopo l’assedio delle scorse settimane e la successiva ritirata dei carri armati russi dalla zona. Questo fatto, insieme al desiderio – mai nascosto – dei profughi arrivati in provincia di Bergamo di tornare a casa il più presto possibile, spiega probabilmente la ragione per cui qualcuno preferisce fare ritorno in patria, nonostante il conflitto ancora in atto, piuttosto che restare lontano dai propri cari.

«Nelle nostre città c’è ancora bisogno di tutto: i nostri concittadini hanno già iniziato a rimettere a posto le case non completamente distrutte e le strade, ma hanno bisogno di qualsiasi cosa per ricostruire»

«A Kiev le aziende stanno richiamando i dipendenti al lavoro – racconta Yaroslava Vyhnevska, presidente dell’associazione Zlaghoda –. È una buona notizia, certo: le forze russe si sono indebolite e grazie ai rinforzi in arrivo dall’Europa abbiamo la possibilità di difenderci anche dagli attacchi aerei. Nella capitale i negozi stanno riaprendo; sono molto richiesti gli infermieri, ma anche altri lavoratori. Due donne che ci aiutavano al magazzino come volontarie sono ripartite la settimana scorsa: una di loro ha un’attività in proprio e mi ha detto che era arrivato il momento di tornare a lavorare».

«È vero che sei milioni di persone sono fuggite dall’inizio della guerra – prosegue – ma altre 35 milioni sono sempre rimaste in Ucraina e hanno bisogno che le attività lavorative ricomincino ad operare. Non si deve pensare, però, che l’emergenza sia finita, perché non è vero. Nelle nostre città c’è ancora bisogno di tutto: i nostri concittadini hanno già iniziato a rimettere a posto le case non completamente distrutte e le strade, ma hanno bisogno di qualsiasi cosa per ricostruire». Un calcolo preciso di chi è rientrato dalla provincia di Bergamo non è possibile farlo, così come non è mai stato possibile conteggiare le persone arrivate (quelle segnalate in questura sono circa 4mila), in quanto molte di loro sono giunte in Italia attraverso conoscenti o familiari.

Arrivi fermi

Nel frattempo si assiste anche a un altro fenomeno: il flusso di persone in arrivo dall’Ucraina e in cerca di accoglienza si è quasi completamente arrestato. «Ci sono dei giorni in cui non arriva più nessuno – dice ancora don Roberto Trussardi –, altri in cui si presenta un solo nucleo familiare, formato da due, tre o quattro persone al massimo. Se si considera che nei primi giorni di guerra arrivavano quotidianamente tra le 30 e le 40 persone, la situazione oggi è ben diversa». In due mesi di conflitto la Caritas ha accolto oltre 250 persone tra il seminario e il monastero Matris Domini; quest’ultimo è stato chiuso all’accoglienza già da alcune settimane, mentre in Città alta ci sono ancora una trentina di profughi, che saranno presto destinati negli appartamenti messi a disposizione dalle comunità parrocchiali.

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