«Qui il mio cuore ha trovato casa»
Prima il trapianto, poi il matrimonio

Dal Marocco a soli 12 anni con una grave cardiopatia dilatativa. L’incontro con Luciano di Trescore, l’infezione superata la scorsa estate.

Sana El Aoud ha un bel sorriso, un pigiama rosa e un orsetto in braccio nell’istantanea che custodisce tra i suoi ricordi più cari: è stata scattata agli Ospedali Riuniti di Bergamo nel 2002 quando lei aveva solo 12 anni, poco prima del suo trapianto di cuore.

Affetta da una grave cardiopatia dilatativa, si era trasferita da poco dal Marocco in Italia con il padre nella speranza di poter ricevere le cure necessarie per salvarle la vita. Oggi vive a San Paolo d’Argon con il marito Luciano, che è cresciuto come lei a Trescore Balneario e l’ha sposata - racconta Sana con un sorriso - «con il pacchetto completo» di controlli e terapie ai quali deve ancora sottoporsi.

Sul punto di morte
Sono passati diciannove anni dall’intervento che le ha regalato la sua rinascita e Sana l’estate scorsa è stata colpita da una grave infezione: è stata ricoverata in ospedale per un mese, si è trovata in punto di morte e questa esperienza «mi ha fatto scoprire di nuovo, ancora una volta dopo il trapianto subito da bambina - spiega - quanto sia bella la vita. Quel momento di gravissima difficoltà, in cui sono stata sul punto di perdere tutto, ha cambiato il mio sguardo sul mondo e ora ho il desiderio di trasmettere a tutti un messaggio di speranza: non dobbiamo arrenderci mai, anche se ci troviamo in un periodo difficile».

Sana ha imparato ad accettare la sua fragilità, a viverla - per quanto possibile - con leggerezza, prendendo il meglio che la vita può offrirle. Come scrive Cesare Pavese, «sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare se stesse e il destino».

In Marocco senza cure
Sana è nata con una grave cardiopatia, che si è manifestata inizialmente con disturbi della crescita: «I miei genitori hanno notato che non crescevo come gli altri bambini, non correvo e non saltavo e stavo spesso male. Crescendo ho iniziato a peggiorare, a trattenere i liquidi, avevo sempre la pancia gonfia. Mi hanno portato in ospedale dove si sono limitati a prescrivermi una dieta povera di sale. A un certo punto, dopo nuove visite è arrivata la diagnosi di cardiopatia e gli specialisti hanno informato i miei genitori che i farmaci non bastavano più, ed era necessario un intervento. In Marocco però poteva essere eseguito soltanto in strutture private e il costo da sostenere era troppo alto per la mia famiglia. Mio padre da quando sono nata, nel 1989, era emigrato in Toscana, dove viveva e lavorava, e ha pensato di portarmi con sé per vedere se era possibile trovare un’altra soluzione». Così si sono rivolti all’ospedale Pascucci di Massa Carrara, un centro specializzato nella cardiologia pediatrica: «Sono stata ricoverata lì per quasi un anno - continua Sana -, finché gli specialisti che mi seguivano hanno detto che non c’era più nulla da fare, perché l’unica strada rimasta era il trapianto. Mi hanno quindi indirizzata a Bergamo che già allora era un centro ad alta specializzazione per i trapianti pediatrici. Mi ricordo che mi hanno trasferito in ambulanza con mio papà. Nonostante la malattia e le mie condizioni precarie, ho un ricordo molto bello di quel periodo. Ero senza la mamma, rimasta in Marocco ad accudire i miei fratelli, ma il personale dell’ospedale e i volontari mi hanno preso molto a cuore, mi stavano vicino, mi coccolavano, mi portavano libri e giocattoli. C’erano le maestre della scuola in ospedale, e questo per me è stato importante, perché quando sono arrivata in Italia ero ancora praticamente analfabeta. Nel villaggio da cui venivo, in quegli anni le bambine non potevano andare a scuola, salvo poche eccezioni. Così quando ho visto i libri e ho capito che avrei potuto studiare ho provato una felicità incredibile, mi si apriva un nuovo mondo, con tante possibilità meravigliose che non avrei mai immaginato».

Il ricovero a Bergamo
Al momento del ricovero a Bergamo le sue condizioni erano precarie: «Sono rimasta a lungo in terapia intensiva, perché c’erano momenti in cui non riuscivo a respirare autonomamente, mi hanno dimessa solo tre mesi prima dell’intervento, anche se durante quel periodo di attesa dovevo rientrare a scadenze brevi, una volta alla settimana, per i controlli. Mi seguiva l’équipe del dottor Carmelo Mammana, il cardiochirurgo Roberto Fiocchi - scomparso prematuramente due anni fa - e la dottoressa Roberta Sebastiani. Da allora e fino ad oggi ho sempre trovato all’ospedale Papa Giovanni XXIII persone di grande competenza, da cui mi sono sentita sostenuta non solo dal punto di vista medico ma anche umano. Il trapianto è avvenuto il 22 marzo del 2002, ma poi ci è voluto circa un anno, perché le mie condizioni si stabilizzassero. Nel frattempo mio padre continuava a lavorare in Toscana e veniva a trovarmi ogni volta che gli era possibile. Per potermi garantire stabilità e cure, dato che dovevo rimanere vicina all’ospedale, mi hanno affidato a una famiglia di Trescore Balneario, che aveva altri due figli miei coetanei. Mi ha accolto a braccia aperte, donandomi l’affetto e l’attenzione di cui avevo bisogno, e si è presa attenta cura della mia salute, con tutto l’impegno che questo comportava».

Una nuova vita
Così Sana ha iniziato la sua nuova vita, frequentando le scuole medie del paese: «Tutti mi conoscevano, perché ero l’unica in classe che doveva indossare la mascherina. Assumevo farmaci immunosoppressori e non potevo correre il rischio di contrarre malattie dagli altri compagni. Da quando è iniziata la pandemia ci siamo abituati a vedere tutti con il volto coperto ma allora era una particolarità che mi rendeva diversa dagli altri e non sempre era facile da accettare. Alcune belle amicizie nate sui banchi di scuola continuano ancora oggi, e per me rappresentano un punto di riferimento prezioso».

Sana si considera molto fortunata: «Sono viva grazie al gesto d’amore compiuto da chi ha donato gli organi. Si parla troppo poco di donazione, che è invece così importante per molti malati in attesa di trapianto. A me è andata bene, ho trovato il cuore giusto per me, con un’ottima compatibilità, non ho avuto crisi di rigetto. Nel mio cammino l’amore ha avuto una parte molto importante: quello della mia famiglia d’origine, poi di quella che mi ha accolto, e quello di mio marito Luciano, che mi accetta come sono, mi sostiene, mi incoraggia e apprezza le mie conquiste quotidiane». Il cuore nuovo, tuttavia, non può essere una soluzione definitiva: «Sono consapevole - aggiunge Sana - che è la tappa essenziale di un percorso, e che devo osservare la massima cautela. Ci sono tante terapie, controlli, limiti, ma anche tanti traguardi, che sono riuscita a raggiungere grazie all’opportunità che ho avuto». Dopo il diploma di segretaria d’azienda, Sana ha trovato lavoro in una ditta del settore alimentare ed è andata a vivere per conto suo. È riuscita a tornare in Marocco per riabbracciare la sua famiglia d’origine solo dopo molti anni insieme al fidanzato, nel 2013 poco prima del matrimonio: «Questa lunga separazione è stata difficile soprattutto per mia madre, quando sono tornata era felice e molto commossa. Anch’io ho ritrovato un ambiente diverso da quello in cui ero cresciuta. Nel mio villaggio molti sono emigrati e hanno inviato denaro alle famiglie dall’estero, perciò quelle che ricordavo come baracche si sono trasformate in vere case, e le condizioni di vita sono migliorate».

La febbre altissima
La lontananza all’inizio le pesava molto: «Senza mia madre e i miei fratelli mi sentivo persa, mi sembrava di non appartenere ad alcun luogo. Poi mi sono resa conto che questi legami sono così forti da non risentire del tempo e della distanza». Non è stato sempre facile fare i conti con la malattia: «Dal punto di vista emotivo - sottolinea Sana - non ho mai accettato completamente la mia condizione, l’ho sempre sentita quasi estranea, come se riguardasse un’altra persona. Quello che è successo la scorsa estate però mi ha cambiato profondamente. Il lockdown era finito, era un periodo di relativa tranquillità, ma all’improvviso mi è venuta una febbre altissima e hanno dovuto ricoverarmi in ospedale. Sono risultata negativa al tampone, ho subito l’attacco di un altro virus, per me altrettanto pericoloso. La temperatura non scendeva, il mio corpo non rispondeva alle cure, mi hanno messo in isolamento nel reparto di cardiologia. Sono rimasta lì per un mese intero, senza poter avere contatti con nessuno. In quella camera dalle pareti bianche a tenermi in vita è stato il desiderio di tornare a sperimentare la bellezza che si nasconde anche nelle situazioni più ordinarie: dormire, mangiare, lavorare, stare con mio marito. Ho sofferto la solitudine, ho sofferto fisicamente e così ho cambiato prospettiva sulla vita, mi sono ricordata del miracolo che mi ha condotto fino a qui, mentre ci sono molte persone che muoiono in attesa di un organo compatibile oppure a causa di complicazioni legate all’intervento».

Fiduciosa nel futuro
«È vero che queste continue chiusure a zone per la pandemia ci condizionano pesantemente, che ci sono conseguenze economiche drammatiche, ma penso che questo non possa farci scordare quale grande dono sia la salute. A me piace passeggiare, ora mi preoccupo molto delle mie condizioni, me ne prendo attenta cura. A casa abbiamo un piccolo giardino e ho imparato ad apprezzare i piaceri semplici, come occuparmi dell’orto, sdraiarmi su un prato, trascorrere del tempo con le persone care, preparare il pane con le ricette di mia madre. Sono grata a mio marito, che mi ha scelto pur conoscendo le mie difficoltà, ha deciso di affiancarmi nella gioia e nel dolore. Sono fiduciosa e penso al futuro con serenità, pronta ad affrontare ciò che mi porterà, e cerco di trasmettere questo messaggio a chiunque incontro, sperando che possa aiutare anche chi in questo momento si trova in difficoltà».

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