
(Foto di Bonacorsi)
ESCURSIONISMO DI MASSA. Fenomeno esploso dopo la pandemia, rischia di diventare fuori controllo. «Così si perde il senso della montagna».
«Dobbiamo iniziare a interrogarci seriamente sul fenomeno dell’overtourism, che non riguarda più solo le Dolomiti, ma è arrivato anche da noi, sulle Orobie». Il grido d’allarme arriva – al termine di un altro fine settimana in cui il gran caldo ha spinto tantissime persone in montagna – dal gestore del rifugio Carlo Medici ai Cassinelli, uno tra i più «presi d’assalto» per la sua facile accessibilità.
Ma il fenomeno di cui parla Claudio Trentani, 62enne che guida il rifugio dal 2017, appare tutt’altro che isolato. Basta dare uno sguardo ai sentieri che alle quote più basse ospitano nelle ore di punta lunghe file di persone, alle code fuori dai rifugi, ai parcheggi delle aree montane strapieni ovunque, e, dulcis in fundo, alle code della domenica sera al rientro dalle valli.
«L’afflusso sta diventando sempre più ingestibile – sostiene il rifugista –. A fronte di questi grandi numeri, rischiamo di diventare degli autogrill, dei posti senz’anima: se dobbiamo servire centinaia di persone non possiamo avere relazioni, ma il compito dei rifugi è essenzialmente questo. Il nostro lavoro può rimanere tale solo se non è aggredito dalla massa». Secondo Trentani, «il senso dei rifugi non è quello di fare soldi, ma di informare e fare prevenzione rispetto agli incidenti in montagna». Il rischio, invece, è che «a fronte di arrivi così numerosi, si perda l’aspetto avventuroso della montagna: bisogna salvaguardarla come riserva di natura, ma anche di avventura».
La frequentazione più «larga» della montagna non è certo un fenomeno esploso ora, bensì il frutto di una tendenza di lungo periodo, sviluppata in particolare a partire dalla pandemia. «Questa è la mia nona stagione e ho visto decuplicarsi le persone che girano qui: non parlo certo del lavoro del rifugio, che ha dei limiti strutturali e non può aumentare il suo lavoro, ma delle persone che comunque arrivano o passano in zona».
Che la gestione dei flussi di escursionisti diretti ai rifugi di questi fine settimana stia diventando sempre più difficile lo denuncia anche il gestore del «Laghi gemelli», raggiungibile da Carona, Branzi o Valcanale: «Le nostre strutture non sono preparate adeguatamente ad accogliere numeri così alti – sostiene Maurizio Nava –. Facciamo tutto il possibile, ma non ci riusciamo. Le persone, peraltro, sono sempre più esigenti, non tutti capiscono le difficoltà di gestire un rifugio a duemila metri». Anche secondo Nava, il rischio reale è lo snaturamento del ruolo del rifugio: «Il problema è che quando si muovono le masse ci riduciamo a luogo dove vendere e comprare. Nei giorni feriali, invece, quando gli ospiti sono pochi, per fortuna abbiamo ancora l’occasione di scambiare chiacchiere con chi arriva: ci piace raccontare come funziona il nostro lavoro e dare informazioni sui sentieri della zona».
L’esplosione, anche secondo Nava, è legata alla fase di uscita dalla pandemia: «Si è registrato un aumento soprattutto dei giovani: ci siamo fatti conoscere tanto, adesso ci vengono a trovare».
L’impatto dei social – a partire dagli influencer – che raccontano in modo affascinante le salite in quota e spingono molti a mettersi in cammino è stato senza dubbio notevole, soprattutto sulla fascia giovanile. «Credo sia avvenuto ormai un cambiamento antropologico – riflette ancora Trentani –. Chiunque faccia qualcosa lo propaganda sui social e lo vende come fosse sul mercato. Un tempo uno andava in montagna, si godeva il panorama ed era già contento così, senza bisogno di farsi pubblicità».
A sostenere che non sempre chi arriva al rifugio abbia la giusta comprensione del luogo in cui si trova è anche Chicco Zani, il gestore dell’Albani, a Colere: «L’afflusso è molto elevato, anche perché qualcuno sale fino a 2.200 metri utilizzando gli impianti – fa notare –. Noi non prendiamo prenotazioni, cerchiamo di dare da mangiare a tutti, ma non tutti i clienti sono pazienti e capiscono in che posto si trovano: molti non riescono a godersi la montagna, hanno fretta come se fossero nel self-service in cui si fa la pausa pranzo dal lavoro».
Zani sottolinea anche come tra gli escursionisti non tutti abbiano abbigliamento e attrezzatura adeguati: «Bisogna capire che, anche se si sale in seggiovia, siamo a duemila metri, non si può arrivare con scarpette o infradito». Quella appena trascorsa, al pari delle precedenti, è stata una domenica di grande afflusso anche al rifugio Curò, a Valbondione. «Lo scorso anno fino a inizio luglio il meteo era stato brutto, quest’anno invece la stagione è partita subito bene», fa sapere il gestore Fabio Arizzi, che sostiene come «pur avendo grandi numeri, siamo preparati e non abbiamo avuto grossi problemi». Sul fenomeno dell’abbandono rifiuti, uno degli aspetti da considerare nel rovescio della medaglia dell’overtourism, Arizzi sostiene che «sicuramente qualche caso c’è, ma quando arriva gente inesperta, bisogna avere pazienza e spiegare dove si trovano».
Parla di un afflusso grande ma gestibile anche Alessia Moraschini, dal rifugio Alpe Corte, a Valcanale: «Siamo ben organizzati, abbiamo molto spazio all’esterno e la maggior parte delle persone opta per prendere cibo d’asporto e mettersi nei prati attorno al rifugio».
Si dice attento al fenomeno dell’esplosione della montagna anche il Cai, che si fa promotore di una frequentazione «consapevole, responsabile e sostenibile». «Siamo attenti a non innescare una frequentazione fuori controllo, che porta al sovraffollamento – spiega l’associazione –. I rifugi sono presidi di cultura, accoglienza, sicurezza e prevenzione, sono sentinelle del territorio, ma non possono reggere numeri incontrollati: dobbiamo promuovere una frequentazione delle Orobie sostenibile, a misura d’uomo e di natura».
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