Spegne le voci «nemiche» nel cuore
e restituisce energia al corpo svuotato

Paola Manzoni, ventenne, racconta la sua lotta con il cibo e la tenacia per ritornare a vivere con serenità

«L’anoressia - scrive Michela Marzano nell’autobiografia “Volevo essere una farfalla” - è un sintomo che porta allo scoperto quello che fa male dentro. È un modo per proteggersi da ciò che sfugge al controllo. Anche se a forza di proteggersi si rischia di morire». Paola Manzoni, vent’anni, di Bergamo, si è avvolta nel filo di seta di questo disturbo come in un bozzolo che la proteggeva dal mondo, ma allo stesso tempo le toglieva il fiato. L’anoressia per lei, come per Michela Marzano, è una bolla che «contiene il magma che si agita all’interno». Per uscirne ha dovuto combattere, prima di tutto con se stessa, per aprire uno spiraglio che le permettesse di «mettere le ali» e di lasciar brillare il suo sorriso.

La morte del fratello a 17 anni

Seduta sul divano del soggiorno, mentre accarezza il suo cane Stella, 11 anni, in adozione dal canile, mette in ordine con cura i pezzi della sua storia, come se componesse un puzzle. Scava in quel punto profondo dell’anima dal quale - dopo tanto silenzio - solo ora affiorano le parole: «Ho sempre avuto un rapporto difficile con il cibo». A scatenare il «mostro» in lei, però, è stata la morte di suo fratello, scomparso a 17 anni in un incidente in moto. Lei ne aveva solo sette, e non è riuscita a mandar giù tutto quel dolore, quell’assenza ingombrante.

«Paola è cresciuta in una famiglia allegra - racconta la mamma Luisa - era la più piccola, adorata e coccolata dai due fratelli maggiori». Dopo la morte del figlio Luisa continuava ad apparecchiare la tavola anche per lui, e quel posto vuoto pesava su tutti. Così all’inizio Paola ha reagito mangiando di più, approfittando delle attenzioni extra e delle merende che le riservava la nonna, con cui trascorreva i pomeriggi. Il suo peso è lievitato fino a crearle problemi di salute e di relazione: «A dieci anni - spiega la mamma - i compagni di scuola la prendevano in giro e la mettevano da parte. Così lei stessa ha manifestato il desiderio di perdere peso, e ci siamo rivolti all’ospedale Papa Giovanni XXIII, dove avevano appena avviato un programma specifico per i problemi di sovrappeso pediatrici con l’apporto di endocrinologi, dietologi e psicologi».

Quel percorso aveva avuto successo: «Mentre altri bambini faticavano a seguire il programma, Paola procedeva spedita e perdeva chili. In un paio di mesi, con molta disciplina, era di nuovo “normopeso”, e aveva recuperato la sua autostima. Alle medie ha cambiato scuola e ambiente, per liberarsi dai brutti ricordi». Nel frattempo Paola aveva seguito un percorso di supporto psicologico e le era stato diagnosticato un problema di dislessia. «Tempo dopo ci siamo resi conto con preoccupazione che per quanto lei crescesse il suo peso rimaneva lo stesso, anzi, verso i tredici anni tendeva a diminuire».

Le prime piccole crepe

Nessuno, in quel momento, lo considerava un problema, a partire da Paola: «All’inizio pensavamo che avessi un metabolismo troppo veloce, cercavo di mangiare di più, ma il peso non aumentava comunque». Era un primo segnale, anche se ancora la famiglia Manzoni non aveva idea di ciò che sarebbe successo in seguito. Paola ha iniziato il liceo di scienze umane: «Un percorso impegnativo - sottolinea la mamma -, anche perché lei è scrupolosa e tiene molto ai buoni risultati. Nel passaggio agli studi superiori, però, aveva la necessità di adattarsi a un nuovo ritmo di studio, tenendo conto della dislessia e di qualche incomprensione di troppo sugli strumenti compensativi con un docente, che ci hanno costretto a reagire con forza». Così le insicurezze, le piccole crepe si sono tradotte di nuovo in un rapporto «malato» con il cibo: Paola ha iniziato a perdere peso.

Tutto il lavoro svolto negli anni precedenti per rafforzare la sua autostima è crollato: «Se un professore diceva che non ero in grado di affrontare una prova - spiega - io ci credevo. Mi sono isolata, non uscivo più, studiavo e basta. Credo di aver smesso di mangiare per nascondermi, per diventare invisibile, ma non me ne rendevo conto, avevo la testa altrove. Continuavo a dimagrire, ma se qualcuno me lo faceva notare lo prendevo come un apprezzamento. Mi sono perfino iscritta in palestra per accelerare questo processo. Poi il ciclo mestruale si è bloccato, mia madre si è allarmata e mi ha portato da un ginecologo e un endocrinologo, che hanno fatto la stessa diagnosi: dovevo solo riacquistare qualche chilo e tutto si sarebbe sistemato. Nonostante questo non mi consideravo magra». Continuava a perdere taglie, passando dalla quaranta alla trentacinque. «Dovevo acquistarle gli abiti nei negozi per bambini - ricorda Luisa -. Mi illudevo che fosse solo una fase, che si sarebbe ripresa, ho iniziato a pesarla tutte le settimane e a notare che la lancetta della bilancia continuava a scendere. Le porzioni di cibo che assumeva si sono assottigliate, è arrivata a mangiare solo mezza mela al giorno».

Nel pieno di questa discesa agli inferi Luisa ha deciso di chiedere aiuto: «Mi sono rivolta al Centro per i disturbi del comportamento alimentare dell’istituto Palazzolo, che ha sia un servizio ambulatoriale sia una comunità residenziale e mia figlia mi ha detto che ero “fuori di testa”. Le ho promesso che avrei iniziato io stessa una terapia psicologica se in questo centro avessero valutato che lei era sana». Paola non si rendeva conto, allora, che in gioco c’era la sua vita: «Mi hanno sottoposto a un test e io gli ho dato con buon senso le risposte che volevano, senza preoccuparmi di mentire».

A quel punto Paola era arrivata all’inizio della seconda superiore: «Mi avevano detto - dice Luisa - che potevano seguirla in modo ambulatoriale. Ci siamo incontrati poco prima delle vacanze di Natale, con l’idea di iniziare il percorso subito dopo, ma quando ci siamo rivisti la situazione era peggiorata: mia figlia aveva problemi di ritmo cardiaco, la sua carnagione era giallastra, mani e piedi erano congelati, perché la circolazione era compromessa. Non c’era la possibilità di un ricovero, perciò ci eravamo messi d’accordo per portarla in istituto durante il giorno e riportarla a casa la sera, seguendo comunque le regole rigorose che ci avevano indicato». Paola era sempre a caccia di una via di fuga: «Ero nervosa, mi ribellavo, piangevo, al mattino pregavo mia madre e mio fratello di tenermi a casa con loro».

La sua famiglia ha capito che non doveva mollare: «Mio figlio Stefano, mio marito Pierangelo e io ci alternavamo per accompagnarla, sostenendoci a vicenda. La sera lei piangeva e diceva: “Non avete idea di che cosa mi fanno lì dentro”, era costretta a mangiare e a rispettare le regole. Luisa era tormentata dal dubbio, la sosteneva soltanto l’idea di poter aiutare Paola a guarire e recuperare la serenità.

Forse, però, non era ancora il momento giusto: «Collaboravo - ricorda Paola - per tenere tranquilli i miei genitori e mio fratello, non per convinzione personale». Dopo qualche mese è stata dimessa e le sono state consigliate attività diverse, che l’hanno aiutata a crescere: educatrice in un Cre con i ragazzi e volontaria nei dormitori Caritas, accanto a persone senza dimora, con problemi psichiatrici e di dipendenza: «Un’esperienza coinvolgente, forte, che mi ha fatto crescere». Paola però ha esercitato la sua tenacia nell’inseguire le voci «nemiche» che aveva nel cuore, fino a toccare il fondo. Dopo la morte di un caro amico, nell’estate del 2019, in circostanze drammatiche e violente, è iniziata una vertiginosa caduta, a un passo dal tracollo fisico e dal ricovero coatto in ospedale: «Perdeva mezzo chilo ogni due o tre giorni - racconta Luisa -, il cuore aveva un battito irregolare. Dormivo con lei e controllavo il suo respiro, temendo che al mattino non si risvegliasse più».

L’aiuto all’Istituto Palazzolo

Quando si è liberato un posto al Centro dell’Istituto Palazzolo Paola è stata ricoverata a tempo pieno. Il covid, però, si è messo di mezzo, ostacolando la ripresa: «A febbraio 2020 ci siamo ammalati tutti - osserva Paola - prima mia madre, poi io, e sono quindi tornata a casa. È iniziato il lockdown e gli specialisti ci seguivano via web».

Questo ha dato a Paola un’altra occasione per cedere terreno alle voci «nemiche» che si celavano ancora in lei: «Grazie a un colloquio con la psicologa - sottolinea Luisa - ci siamo accorti che dava il suo cibo al cane oppure lo nascondeva nei vasi delle piante sul terrazzo». Non appena la situazione è migliorata, a maggio, è rientrata nella comunità, questa volta con una motivazione forte, con il desiderio di tornare alla vita e a una nuova relazione con un ragazzo che aveva incontrato nel frattempo, Gabriele. «La pandemia ha aggiunto protocolli e regole più stringenti alla vita di comunità, ma è stato un bene: questa situazione mi ha aiutato a conquistare consapevolezza e responsabilità». Nel frattempo ha superato l’esame di Stato, concludendo gli studi e ha fatto passi da gigante: ora dà una mano ai genitori e al fratello nella gioielleria di famiglia e fa da babysitter a sua nipote, che ha quasi due anni. C’è tempo per pensare al futuro: «Deve godersi questo momento, - conclude Luisa - perché ha già perso tanto». Dopo tutto il suo silenzio, Paola ha trovato nel profondo dell’anima le parole per ricostruire la sua storia e le sue conquiste, raccogliendole in una lunga lettera da condividere con le persone che le vogliono bene. Un passo importante per lei che non ha mai voluto ammettere di essere anoressica. Solo ora ci riesce, perché può mettersi questa brutta avventura alle spalle: «Ho capito che dovevo impegnarmi, che dipendeva solo da me. La vita è una ed è bella, e bisogna mettercela tutta per riconquistarla, ne vale la pena».

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