Donizetti, nel Govi di Solenghi il ritorno trionfale del teatro di parola

STAGIONE DI PROSA. Accoglienza calorosa con lunghi applausi per l’esordio al Teatro cittadino di «Pignasecca e Pignaverde». Una commedia divertente su «un uomo ridicolo» e cocciuto «vinto» dalle donne di casa.

Bergamo

Il pubblico del Donizetti ha accolto calorosissimamente, con meritati interminabili applausi finali, lo spettacolo «Pignasecca e Pignaverde» con Tullio Solenghi che ha aperto, sabato 6 dicembre (in scena fino a domenica 14 dicembre) la Stagione di Prosa 2025 – 2026 della Fondazione Teatro Donizetti. Un lavoro che si inserisce nel recupero che l’attore genovese (che il grande pubblico ricorderà per lo strepitoso successo che ebbe il trio Lopez, Marchesini, Solenghi) sta compiendo del teatro del suo grande conterraneo Gilberto Govi (1885 – 1966) che è stato uno dei mostri sacri del teatro italiano. Il recupero cioè di tutta quella tradizione che oggi si è un po’ persa di un teatro che sarebbe riduttivo definire «dialettale» ma che, al contrario sapeva, pur partendo da lì, da quell’universo particolare, diventare universale. All’interno di questa tradizione campeggia questo «Pignasecca e Pignaverde» commedia scritta da Emerico Valentinetti e soprattutto la figura del suo protagonista quella di Felice Pastorino epitome del «tirchio» genovese. Una tirchieria che si può coniugare in modi diversi sia come avarizia vera e propria, sia più bonariamente come parsimonia.

L’avarizia e l’interesse

Scherzandoci sopra lo stesso Solenghi sostiene che ancor a oggi i genovesi siano «parsimoniosi»: e sia. Anche perché l’avarizia, ricordiamo, è uno dei sette peccati capitali e nella Commedia Dante, gli avari (ma anche i troppo prodighi, ma qui la faccenda si fa complicata) li sbatte all’inferno (canto VII). Sia come sia il Felice Pastorino protagonista di questo lavoro è sicuramente avaro, magari non come l’Arpagone dell’«Avaro» di Molière che alla fine quasi impazzisce quando scopre la scomparsa della sua cassetta con i diecimila scudi, ma comunque più interessato alle «palanche» che, per esempio, alla felicità di sua figlia Amalia volendo costringerla a un matrimonio di interesse.

Tutto in un solo ambiente

Sfortunatamente per lui che è convinto che in casa «si fa come dico io», sarà la componente femminile della famiglia, la stessa Amalia, sua madre e la donna di servizio a spuntarla e a far capitolare il cocciuto Felice. Ma insomma entriamo nell’universo di Felice Pastorino che la commedia concentra in un unico ambiente, un soggiorno piccolo borghese, grigiastro, dalla dignità un po’ dimessa (il progetto scenografico è di Davide Livermore, la scenografia di Anna Varaldo) che sembra quello dell’«Amica di nonna Speranza» cantato da Guido Gozzano, zeppo di quelle «buone cose di pessimo gusto» che rispecchiano il carattere dei suoi abitanti e soprattutto quello di Felice. Nel quale soggiorno si sviluppa tutta la vicenda intervallata da brevi momenti di buio per i rapidi cambi di situazione e nel quale entrano ed escono i vari protagonisti interpretati, oltre che da Tullio Solenghi da Claudia Benzi, Laura Repetto, Matteo Traverso, Stefano Moretti, Roberto Alinghieri, Mauro Pirovano, Stefania Pepe.

Il recupero della tradizione

Certo, dal punto di vista squisitamente teatrale questo «Pignasecca e Pignaverde» (il titolo deriva dal nome dei due protagonisti della poesia «I due avari» di Martino Piaggio), fa parte di un tipo di teatro che pensavamo di non vedere più (oppure speravamo) puramente di parola, senza impennate registiche, placidamente adagiato nei rivoli del testo. Eppure, paradossalmente, proprio qui sta la sua modernità. Che è quella, cui accennavamo, del recupero di una tradizione teatrale italiana che è andata man mano scomparendo e che invece, riproposta, è una sorta di recupero archeologico come, per esempio, si parla di archeologia industriale. Una sorta di archeologia teatrale che è bello riscoprire proprio come se si aprisse un album di vecchie fotografie, sfogliando all’indietro un album di ricordi di un Italia in bianco e nero ma senza la nostalgia un po’ pelosa del «come eravamo» ma con la gioiosa felicità di una riscoperta.

Mimica strepitosa

In questo il lavoro di Tullio Solenghi è strepitoso, il suo aderire, non imitandolo pedissequamente, ma ispirandosi alla sapiente verve comica di Gilberto Govi, eleva questo lavoro a un livello superiore rispetto a quel tipo di teatro cui accennavamo. La mimica strepitosa, aiutata dal trucco marcato, l’inflessione dialettale, le pause accorte che lasciano il tempo allo spettatore di anticipare la battuta che ha imparato a capire che sta per arrivare. Dalla fermezza iniziale alla capitolazione finale potrebbe essere niente altro che una sorta di «commedia di un uomo ridicolo» perché ovviamente il pregio maggiore di questo lavoro è quello di essere molto, molto divertente e che riesce a far diventare simpatico anche un avaraccio come il protagonista.

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