(Foto di bedolis)
L’INCONTRO. Enzo Iacchetti al Teatro Sant’Andrea ha presentato il suo nuovo libro «25 minuti di felicità»».
Si ride e si riflette, a teatro come nella vita. Enzo Iacchetti lo ha fatto sabato 20 dicembre con il pubblico del Teatro Sant’Andrea, in Città Alta, di cui è stato ospite per presentare il suo ultimo libro: «25 minuti di felicità», edito a ottobre da Bompiani. «Questo libro è la storia della mia analisi. Il rapporto con mio padre è stata la nota brutta della mia vita. Fin da piccolo, mentre gli altri si accorgevano che ero bravo, che cantavo bene, lui non ha mai voluto che facessi il musicista o l’artista. La sua figura ha influito sulle scelte della mia carriera. Ho vissuto 50 anni di sensi di colpa. Un tormento che non è finito finché ho concluso il libro».
Dietro alla comicità irriverente di Iacchetti, 73 anni, ci sono le ferite di un uomo, e prima ancora di un bambino. Non a caso «Senza mai perdere la malinconia» è il sottotitolo del volume. «Sono stato abbandonato dai miei genitori un minuto dopo essere nato - racconta con ironia -. Nato in casa, mi hanno lasciato da solo 20 minuti ai piedi del letto nell’attesa che mi dessero da mangiare. In quei venti minuti è racchiusa tutta la solitudine e la malinconia della mia vita».
«Come Seneca con la sua concezione di felicità. «Diceva che nell’arco di una vita dura 30 minuti. Io in proporzione ne ho vissuti 25, me ne mancano 5»
Davanti alla platea di 100 persone non ha raccontato però solo i momenti di minore luce. Il suo è il racconto di un’esistenza tenace: una gavetta lunga e faticosa, con il successo arrivato tardi. Dagli sketch di cabaret nei night club alle serate con la chitarra in pizzeria per far ridere una clientela che spesso non gradiva («Mi tiravano i cornicioni delle pizze»). Fino agli esordi al Derby di Milano nel 1979, dove riuscì nel tempo a scalare le gerarchie, esibendosì lì dov’erano passati alcuni dei più grandi comici italiani, da Teo Teocoli a Diego Abatantuono. «Ma quando toccò a me diventare famoso chiusero il locale», puntualizza. Finché dopo mille peripezie arrivò l’occasione che professionalmente gli cambiò la vita, il provino al Maurizio Costanzo Show. Un periodo difficile, perché difficile era far ridere Costanzo: «Non rideva a bocca aperta, ma capivi se gli stavi simpatico in base a quanti sussulti della pancia faceva: uno, voleva dire così così; due, bene; se ne faceva tre, significava che eri bravo». E fu proprio di Costanzo - che si convinse ad invitare Iacchetti in trasmissione - l’intuizione delle «canzoni bonsai» con la chitarra. «Costanzo mi ha cambiato la vita. Pensandoci ho passato più tempo con lui che con mio padre. Maurizio era il padre che avrei voluto: mi istigava, mi provocava, mi consigliava. Mi ha insegnato a capire cosa funzionava e cosa no, come rispondeva il pubblico. Però lo chiamavo zio - precisa -. Non m’andava di chiamarlo papà, mio padre si sarebbe offeso».
«Il rapporto con mio padre è stata la nota brutta della mia vita. Fin da piccolo, mentre gli altri si accorgevano che ero bravo, che cantavo bene, lui non ha mai voluto che facessi il musicista o l’artista. La sua figura ha influito sulle scelte della mia carriera. Ho vissuto 50 anni di sensi di colpa»
La sua carriera è stata ispirata anche da alcuni miti. Quelli dello spettacolo anzitutto. «Gaber era il più profondo di tutti. Jannacci il più surreale. E poi Guccini, poeta del Novecento. Per me sono i tre mostri sacri da rispettare sempre». Ma anche quelli di finzione. «Ero innamorato di Rocky, un personaggio che perde ma si rialza - aggiunge -. Nella vita puoi vincere o perdere, ma se perdi la voglia di combattere hai perso il senso del campare». Infine i riferimenti letterari. Come Seneca con la sua concezione di felicità. «Diceva che nell’arco di una vita dura 30 minuti. Io in proporzione ne ho vissuti 25, me ne mancano 5». Quelli che gli bastano per far ridere il pubblico: «Mi sento bene quando restituisco agli altri».
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