«Là dove finisce il buio», la lunga notte del ’43 di don Vavassori e don Seghezzi

LO SPETTACOLO. Sabato 2 agosto, per deSidera a Osio Sotto la prima nazionale dello spettacolo che intreccia storia e biografia dei due sacerdoti arrestati dai nazisti. In scena l’attore e regista Panzeri: due eroi che hanno lasciato il segno.

Nella notte tra il 23 e il 24 novembre 1943 don Giuseppe Vavassori viene arrestato dai nazisti. Conosce molto bene la cella del carcere di Sant’Agata a Bergamo dove viene rinchiuso, perché ne è stato cappellano. In una cella vicina è recluso don Antonio Seghezzi, assistente diocesano dell’Azione Cattolica, arrestato per avere aiutato alcuni giovani renitenti alla leva. Gli era stata più volte proposta la fuga, che il sacerdote aveva però rifiutato a causa di un ultimatum dei tedeschi di cui anche altri avrebbero pagato le conseguenze. Don Antonio muore a Dachau il 22 maggio del ‘45, mentre don Bepo viene scarcerato il 29 dicembre del ‘43.

Tre ricorrenze

Sabato alle 21.15 in Piazza Papa Giovanni XXIII a Osio Sotto andrà in scena la prima nazionale dello spettacolo «Là dove finisce il buio», un testo nato per ricordare tre ricorrenze che cadono proprio quest’anno: l’80° anniversario della Liberazione, che coincide con l’anniversario della morte di don Seghezzi, e il 50° anniversario della morte di don Vavassori. Sarà un monologo intenso ed emozionante, che darà voce ai tormenti e alle paure di due uomini di fede che hanno saputo scegliere da che parte stare e hanno creduto, anche nei momenti più difficili, in un’umanità possibile.

Lo spettacolo è prodotto da deSidera e Teatro de Gli Incamminati, con la coproduzione della Fondazione Adriano Bernareggi, ed è realizzato con il patrocinio della Diocesi di Bergamo e il sostegno del Comune di Osio Sotto. Il testo di Marialuisa Miraglia sarà interpretato da Stefano Panzeri – che ne ha curato anche la regia – con le musiche originali dal vivo di Simone Riva.

«La scrittura di questo testo teatrale è stata per me una sfida, che ho raccolto con grande entusiasmo e un pizzico di timore – ci racconta la Miraglia – Come la maggior parte dei bergamaschi conoscevo già la figura di don Bepo, ma non quella di don Seghezzi. La mia prima fonte sono state le lettere che don Seghezzi ha scritto tra gli anni ‘30 e gli anni ‘40, rivolte in modo particolare ai giovani. A differenza di ciò che riguarda don Bepo, non ci sono molte biografie di don Antonio. Oltre all’aiuto di deSidera e della Fondazione Bernareggi, è stato fondamentale l’incontro con Monsignor Tarcisio Tironi, vice postulatore della causa di

beatificazione dei due sacerdoti. Altra fonte importante è stata la corrispondenza epistolare di Betty Ambiveri - una delle protagoniste della Resistenza bergamasca, anche lei rinchiusa nel carcere di Sant’Agata – oltre agli editoriali di Monsignor Spada, all’epoca direttore de “L’Eco di Bergamo” nonché amico di don Bepo e don Antonio».

L’incontro tra Marialuisa Miraglia e Stefano Panzeri ha dato origine a un’opera originale e appassionata, che non vuole essere un racconto agiografico, ma intende restituire l’umanità complessa di due figure attraversate anche da dubbi e timori.

Due figure straordinarie

«Questi due sacerdoti sono indubbiamente eroi che hanno lasciato un segno, come molti altri in quel periodo – racconta Panzeri – Con Marialuisa abbiamo però cercato di trovare una chiave per raccontare una storia così cara ai bergamaschi. Il teatro deve porre delle domande, creare dei chiaroscuri. Abbiamo pensato che fosse interessante analizzare anche i rimpianti e le paure che possono avere segnato la vita di questi sacerdoti. È storicamente provato che don Bepo si è prodigato per far scappare l’amico, ma forse di fronte al suo rifiuto e

alla decisione di consegnarsi ai tedeschi ebbe il rimpianto di non avere fatto abbastanza per lui e di non avere avuto un futuro insieme. Vorremmo mostrare al pubblico due persone sicuramente straordinarie, ma più vicine a noi di quanto pensiamo. Perché anche nel nostro piccolo può succedere di vivere un istante eccezionale. Sono consapevole che non si tratta di uno spettacolo qualsiasi, anche perché saremo prima a Osio, paese d’origine di don Bepo, e a fine agosto a Premolo, dove nacque don Antonio. Vorrei rivolgermi a credenti e non credenti, sottolineando i lati umani di queste due figure: i rimpianti e i dubbi, ma anche la condivisione di un ideale oltre che di una grande amicizia, la passione per la formazione dei giovani, il desiderio di aiutare il prossimo».

Nel corso della stesura del testo, dovendo scegliere chi dei due sacerdoti far parlare, la scelta della Miraglia è caduta su don Bepo, che è sopravvissuto e può raccontare anche cosa è accaduto dopo: la fine della guerra, il lavoro al Patronato San Vincenzo, le missioni diocesane in Bolivia, tutta una vita spesa al servizio degli altri.

Una scelta dolorosa

Nella sua cella don Bepo ricorda gli anni della Prima Guerra Mondiale - quando sul fronte francese conobbe Giuseppe Ungaretti - per poi ripercorrere la storia dell’amico, offrendo una cronaca precisa della sua fuga dai tedeschi e della sua scelta, dolorosa ma consapevole, di consegnarsi. Le parole del narratore riportano gli spettatori al passato, mostrano il presente e anticipano il futuro.

«Ho scelto di ambientare il racconto in una cella perché qui il tempo viene scandito dalla routine quotidiana e anche dai canti di compieta che arrivano dalla cella di don Antonio – continua la Miraglia – Ma in cella il tempo è anche sospeso, sembra non passare mai, e il prigioniero si ritrova a percorrere tutto il suo vissuto. Questo mi ha consentito di far raccontare a don Bepo la sua vita e anche di fargli immaginare ciò che avviene nella cella accanto. Stefano mi ha aiutato a dare struttura a questo flusso di coscienza, scandito anche dalle musiche originali di Simone Riva, attraverso le quali lo spettatore può immaginare don Antonio pur non vedendolo in scena». La notte del suo arresto, don Bepo si rivolse ai soldati tedeschi che avevano fatto irruzione nella sua stanza dicendo che avrebbe accettato di uscire di casa solo vestito da prete.

«Con questo spettacolo abbiamo cercato di tenere fede alla sua immagine di sacerdote, ma abbiamo in qualche modo voluto spogliarlo dell’abito talare, per farlo parlare come un uomo con le sue paure e incertezze - conclude la Miraglia - Gli anni del fascismo e della guerra sono stati anni di buio, e molti sacerdoti il buio l’hanno vissuto, ma hanno saputo essere uomini nonostante tutto».

Responsabilità e gratitudine

Come ha dichiarato don Davide Rota Conti, direttore dell’Ufficio Pastorale della Cultura della Diocesi di Bergamo, «fare memoria è un atto di responsabilità e di gratitudine verso il passato, che diventa luce per leggere il presente e costruire il futuro. Questo spettacolo teatrale, che prende forma grazie a un attento lavoro di ricerca storica, rappresenta per noi non solo un momento di alto valore culturale, ma anche un’occasione di annuncio del Vangelo attraverso i linguaggi dell’arte e del teatro».

Perché là dove finisce il buio brilla sempre la luce della fede, dell’amicizia e dei grandi ideali.

In caso di maltempo lo spettacolo si terrà nella Sala della Comunità Mons. Vincenzo Savio, in via S. Alessandro 3. La replica è prevista per sabato 30 agosto alle 21.15 sul sagrato della chiesa parrocchiale di S. Andrea Apostolo a Premolo (in caso di maltempo all’interno della chiesa).

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