Nelle «Medichesse» riflessioni e ironia sulla cura delle donne

LO SPETTACOLO. Storie d’amore per la professione medica. La regista: «Si inneggia a una sorellanza, che è poi lo spirito dell’associazione. Il punto fondamentale è il passaggio di testimone».

Donne medico che i pazienti chiamano «signore» o «signorine». Che hanno scelto la professione per passione e la sceglierebbero ancora, anche a scapito del progetto di metter su famiglia. Che lottano con il «soffitto di cristallo» che le ostacola nel raggiungere posizioni apicali. Queste storie di amore per la professione medica, e per la «cura», sono state messe in scena domenica 25 maggio, al Centro congressi Papa Giovanni XXIII, da 15 dottoresse «vere», dai 30 ai 75 anni di età, capaci di raccontarsi tra azioni coreografate, canzoni, recitazione e le scene con i quadri astratti di Valentina Persico.

È «Le Medichesse. Sempre cercando di essere là dove il mondo si muove». Un progetto nato sotto il segno dell’Aidm, l’Associazione italiana donne medico (si costituì nel 1921), e della regista Silvia Barbieri, attiva da anni in spettacoli di «teatro sociale» in città. Che racconta: «L’idea è nata con la mia dottoressa, l’endocrinologa Daniela Gianola, e con Fabiola Bologna (rispettivamente vicepresidenti dell’Aidm bergamasca e nazionale, ndr) ed è stata preceduta da un laboratorio di scrittura autobiografica. L’ha tenuto una scrittrice, la bergamasca Adriana Lorenzi».

Silvia Barbieri, «medichesse» è un termine ironico che rimanda, secondo la Crusca, anche alle antiche pratiche delle guaritrici.

«E alle streghe... Il titolo l’ho proposto io, come anche il fil rouge che collega lo spettacolo, Igea. Sta nel logo dell’Aidm, è la dea della prevenzione e della cura. Fa un po’ le scarpe ad Esculapio, che è più riconosciuto perché la storia è scritta dagli uomini, senza con questo voler fare del femminismo a tutti i costi. “Medichesse” riscatta gli albori. Furono le donne le prime ad usare erbe e infusi. Grandi ricercatrici, anche se nell’immaginario sono diventate maghe o streghe. E poi medichesse ha qualcosa di teatrale e fascinoso, si rifà al mito e a una sonorità desueta. E all’ironia, perché lo spettacolo ha anche ironia, oltre a racconti profondi e fatiche. C’è la capacità delle donne medico di prendersi in giro».

Dev’essere stato particolare mandare in scena attrici sì non professioniste, ma in realtà professioniste con un alto livello di specializzazione nel loro campo.

«Hanno dovuto mettersi in gioco parecchio. Talvolta la loro professionalità le ingabbia in un ruolo sociale, quello della dottoressa. Ma sul palco devi smascherarti, specie perché queste dottoresse raccontano i testi di una raccolta autobiografica scritti da loro stesse. Io ho cucito i testi fra loro usando la dea Igea, che è anche un ponte con il pubblico, invita a riflettere e a sorridere».

«Si inneggia a una sorellanza, che è poi lo spirito dell’associazione. Il punto fondamentale è, nell’epilogo, la consegna, il passaggio di testimone alle giovani mediche»

Per loro è stato liberatorio?

«Si sono concesse chi subito, chi con diffidenza. Ma ora sono tutte felici. Qualcuna mi ha ringraziato per la libertà acquisita, per la sicurezza con cui si è raccontata. È stato un lavoro di team building, ne sono uscite rafforzate. È la prima volta che delle mediche salgono sul palcoscenico».

Igea dice che le donne curano il corpo e anche l’anima.

«La donna, di per sé, nella sua “struttura”, si prende cura. Risulta anche dagli studi. La maggior parte dei pazienti curati da donne guarisce prima. Si sentono più capiti e compresi dalle donne medico. Che però talvolta, ancora oggi, non vengono riconosciute nel loro ruolo. Ma non abbiamo risparmiato nemmeno loro».

Si toccano casi di «nonnismo» al femminile.

«Esattamente! Anche perché raggiungere posti apicali è faticoso, quindi capita che chi li raggiunge difficilmente apra degli spazi alle nuove. Anche le donne hanno i loro caratteri. Ma si inneggia a una sorellanza, che è poi lo spirito dell’associazione. Il punto fondamentale è, nell’epilogo, la consegna, il passaggio di testimone alle giovani mediche. Una sorta di lettera finale fatta col cuore, con la cura, e con i consigli alle nuove generazioni».

Igea dice anche: le cose stanno cambiando. È vero?

«Sì. Lentamente, ma stanno cambiando, anche se ancora capita che una medica incinta faccia fatica a mantenere il posto o ad avere avanzamenti di carriera. Ma la chirurgia, che era appannaggio maschile, si sta spostando sul femminile».

Dove andrà lo spettacolo, dopo il debutto di Parma e Bergamo?

«In autunno a Crema e a Pavia. Ma ci sono in ballo anche delle date a Roma e Napoli».

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