Pace, diritto al lavoro e rispetto dell’ambiente: sul palco dell’Ariston le voci dell’attualità

IL COMMENTO. «Leggerezza e semplicità. Ci accettiamo per quello che siamo». Amadeus ha messo in pratica giovedì sera l’insegnamento del maestro Giovanni Allevi sulla vita, nel bene e nel dolore.

Un modo per dimostrare che le verità non vanno soltanto applaudite ma interpretate nella quotidianità. Anche quando sembra che le fatiche e le certezze vengano travolte (e il verbo non è a caso) da polemiche di taglio talmente basso da fermarsi… su un paio di scarpe. Ma scarpe o no, il Festival di Sanremo cammina, schiva le buche più dure, prosegue secondo programma. Tra la parata d’ordinanza delle 15 canzoni, si innalza un bel “Va pensiero” del coro dell’Arena di Verona, plana la simpatia frizzante di Teresa Mannino e si apre una finestra sui 70 anni compiuti dalla televisione in Italia.

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Il Festival non può dimenticarlo, ha un grande debito con il piccolo schermo: la televisione ha dato alla gara canora di Sanremo una dimensione nazionale. Se oggi il palco dell’Ariston è una piattaforma nazionale che amplifica messaggi, crea dibattito e solleva polemiche, lo deve alle “cornici” domestiche e tascabili.

Ieri sera i messaggi forti non sono mancati: i richiami alla pace, alla sicurezza sul lavoro, al rispetto per l’ambiente sono risuonati tra le mura dell’Ariston. E l’aspetto più apprezzabile è stato lo stile di queste comunicazioni. Eros Ramazzotti ha cantato la sua “Terra promessa” per il quarantennale della canzone rileggendo il brano nell’attualità. Non più speranze di un giovane di periferia, ma un orizzonte più vasto, globale. Sicché le considerazioni di Ramazzotti sui “milioni di bambini che non vedranno la terra promessa” e l’appello a fermare le guerre si sono librate sull’onda di un’emozione sonora.

Stesso veicolo artistico, ma con una valenza storica in più, per Gianni Morandi: “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” (datata 1966) era la voce italiana della contestazione alla guerra nel Vietnam. E purtroppo le sue strofe riecheggiano attuali nelle cronache di ordinaria brutalità dei conflitti.

Paolo Jannacci e Stefano Massini hanno regalato al Festival una perla rara: un’interpretazione che univa canzone e teatralità per rappresentare il dramma di una scomparsa, una morte sul lavoro. Infortuni che si citano come statistica e sulle pagine dei media conquistano spazi giusto per una giornata o poco più. Il lavoro non può essere una guerra, una conta di caduti. «C’è un amore di cui non si parla – ha rimarcato Massini – quello per i nostri diritti». Diritti spesso declamati, celebrati con fanfare e decreti, però messi in secondo piano quando si tratta di fare i conti con i tagli dei budget e le sregolatezze dell’economia di mercato.

E poi il monologo di Teresa Mannino sul rapporto tra uomo e natura: un’argomentazione che parte dalla filosofia, dal pensiero di Protagora sulla misura , e passa per le scienze naturali con la descrizione della meraviglia delle formiche tagliafoglie arrivando a denunciare la nostra relazione malata con la terra che ci nutre e ci ospita.
Scuserete se oggi le palette numerate per le canzoni e le considerazioni sui look hanno saltato un giro. Sul palco di Sanremo sono arrivati temi importanti, cruciali per tutti. E anche se sono giunti in semplicità e con la leggerezza della musica, non vanno sminuiti: sta a noi fare in modo che il messaggio non si perda nel rumore di tutti i giorni.

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