Sorprendente Hancock: il veterano dall’animo giovane incanta il Lazzaretto

IL CONCERTO. Serata di grande jazz con il leggendario pianista fra scarti ritmici geniali e vertiginose progressioni melodiche. Con un appello all’unità della famiglia umana.

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Il suo nome è già parte della storia del jazz a Bergamo, pure il ritorno di Herbie Hancock a tanti anni di distanza da quel 1972 ha lasciato il segno di fronte alla platea, sold out, del Lazzaretto. Sotto le insegne della Rassegna internazionale del jazz era uno dei giovani ed eroici protagonisti di una stagione di irripetibile creatività e avventura. Venerdì sera è stato possibile applaudire quello che è un ammirato testimone di quelle esperienze, assurto anche a rilevanti ruoli nelle istituzioni internazionali.

Il terzo e ultimo atto della versione estiva di Bergamo Jazz non ha però avuto affatto natura celebrativa. Se pure i palchi del jazz, tradendo non poco la quintessenza di questa musica, si affidano sempre più alla garanzia rappresentata da leader consacrati e storici, Hancock ha scongiurato il rischio mettendo in scena la vitalità prorompente di un veterano cresciuto sotto i migliori auspici di una scuola di creatività tuttora unica. Chiude la serata con il groove, tanto immediato quanto contagioso, della sua «Chameleon», saltellando, keytar (crasi tra keybord e guitar) in spalla, attorno ai suoi compagni di avventure, indifferente delle 85 primavere che pure lo accompagnano. Impressionante coronamento di un concerto generoso che ha profuso infinite sorprese e regali. Il finale di concerto ha sì concesso l’abbrivio festante dell’anima funk ma in precedenza ha prevalso una rapsodica ricchezza di sviluppi e traiettorie tali da rendere i non molti brani in scaletta terreno di gioco per esibire senza riserve i talenti degli improvvisatori.

L’Ouverture iniziale ha dato la stura a questa articolata esperienza sonora, con una prolungata introduzione affidata alle esplorazioni timbriche dell’ensemble, risolta in un accattivante timing. Non mancano certo il suono sintetico delle sue tastiere, il basso elettrico avvolgente di James Genus, la tromba sempre filtrata di Terence Blanchard, lirico e avvincente. Pure quando Hancock passa al pianoforte si afferma costantemente il primato del gioco senza rete.

Spesso basso e chitarra, con il raffinatissimo Lionel Loueke che riesce a far sembrare gregario il suo assoluto protagonismo, garantiscono tessiture costanti ma Hancock, ed è un suo tratto da sempre, devia costantemente l’attesa. Dialoga costantemente con le pelli e i piatti di Jaylen Petinaud, elude il fraseggio standard per irrompere in sorprendenti soluzioni armoniche, vertiginose progressioni melodiche, scarti ritmici spiazzanti e geniali. Grande jazz insomma, anche se non necessita di walking e di reiterati chorus armonici.

Come è noto i tre concerti estivi di Bergamo Jazz sono nati nel segno della collaborazione con il Festival Pianistico internazionale. Meglio non poteva illustrare le potenzialità della nuova joint venture questo concerto di quello che è senza dubbio uno dei più grandi pianisti di questi decenni a cavallo tra due secoli, pure felicemente irriducibile ai parametri e confini della musica colta.

Viene convocato anche lo spirito fraterno di Shorter, con una «Footprints» pur deformata, orfana del famoso giro di basso eppure ricchissima. Il collettivo e la vera imprevedibilità dell’estro musicale governano anche «Actual prof» con un solo, questo sì di agilità, di Genus, e una serie di scambi tonitruanti con la batteria. Si possono ancora ricordare le traiettorie armoniche trasmutanti della bellissima «Butterfly», che ancora una volta si fregia della magistrale classe del pianista.

Hancock, questa volta plausibilmente nei panni dell’ambasciatore dell’Unesco, si ritaglia anche un ampio spazio per un appello, tra oratoria e canto, all’unità della famiglia umana, polemizzando con quanto sta avvenendo attorno a noi e negli Usa. Infine tutti in piedi ad applaudire questo giovanile veterano.

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