«Così i pescatori spiegano come il mare cambia»

LA CRISI CLIMATICA. Nel libro «Tropico Mediterraneo» Stefano Liberti racconta gli incontri del suo viaggio. Lo sfruttamento delle risorse ittiche e le specie aliene.

«Una spedizione lungo le acque agitate di un Mediterraneo in crisi profonda, specchio della sfida più pressante del nostro tempo. Stefano Liberti ha scritto un libro coinvolgente e riflessivo: crudo nel riportare il dilagante sfruttamento di risorse naturali, ma attento ai segnali di speranza e resilienza». Con queste parole il grande scrittore indiano Amitav Ghosh introduce «Tropico Mediterraneo. Viaggio in un mare che cambia» (Laterza, 2024), l’ultimo libro del giornalista e scrittore, autore di inchieste internazionali. È la seconda opera di Liberti sulla crisi climatica dopo «Terra bruciata» del 2020, dove raccontava come l’emergenza ambientale stia cambiando l’Italia e la nostra vita. Dalla terra al mare. «Sì, un lungo viaggio nel Mediterraneo – ci spiega – per capire quali siano gli effetti della crisi climatica sul mare, con il metodo di parlare con le persone che ne vivono, specialmente i pescatori. Si sente ripetere che l’area mediterranea è un “hotspot” climatico: ho voluto verificare che cosa stia avvenendo. Effettivamente ci sono fenomeni impressionanti ma non visti da nessuno, perché il mare è distante e un po’ rimosso dal nostro orizzonte. Ma dal mare dipende la vita stessa sulla terra: le trasformazioni in atto sono molto significative. Mi sono imbarcato con i pescatori, dalla Tunisia alla Grecia, da Cipro all’Italia: mi hanno accolto e mi hanno mostrato».

Con «Terra bruciata» aveva scoperto che la crisi è più grave di quanto pensasse: è successo anche con «Tropico Mediterraneo»?

«Sì, assolutamente. Il surriscaldamento delle acque produce mutamenti del regime climatico, l’aumento dei fenomeni estremi per la maggiore energia sprigionata nell’atmosfera. Con i pescatori vedi in modo molto evidente gli impatti dell’enorme aumento, spaventoso, di specie aliene e alghe, la scomparsa di specie endemiche, anche di un simbolo del Mediterraneo come la pinna nobilis, e la regressione molto rilevante della posidonia oceanica. Mentre arrivano il pesce palla, il pesce scorpione, il granchio blu che, nel Delta del Po, ha distrutto le produzioni di vongole. Sintomi di una crisi più ampia, che investe tutti i mari ed è determinata dal surriscaldamento globale, e dell’eccessivo sfruttamento del Mediterraneo».

La sorpresa negativa maggiore? E quella positiva?

«Ho visto moltissimi esempi positivi, non solo pescatori ma anche scienziati che si stanno interrogando su quanto sta avvenendo e stanno mettendo in campo delle soluzioni. In Tunisia, per esempio, dove il granchio blu giunto dall’Oceano Indiano ha distrutto gli stock ittici, generando crisi sociale ed emigrazione, a un certo punto la grande maledizione è stata trasformata in una risorsa alimentare con una filiera basata su questa specie aliena. Alla fine, c’è sempre una soluzione di adattamento. Mi ha colpito in negativo l’indifferenza per questo mare, ai cui bordi vivono 500 milioni di persone: ne siamo alienati, non ce ne occupiamo, non ci interessa. Anch’io, viaggiando con i pescatori, ho capito che non ne sapevo nulla e me ne ero interessato troppo poco. Lo vedevo come qualcosa distante dalla mia vita sulla terra».

«Altri protagonisti sono i paesaggi che cambiano, il Mediterraneo che si sta trasformando anche sulle coste. Isole di pescatori che diventano turistiche, perdendo l’identità»

Protagonisti del libro sono i pescatori.

«Ci sono tre ordini di protagonisti. Con i pescatori ho viaggiato moltissimo: sono una comunità in crisi, in disgregazione, stanno scomparendo. L’età media è piuttosto alta: non c’è ricambio generazionale non solo nella riva nord del Mediterraneo ma anche nella riva sud. Una comunità residuale, ma con un forte ancoraggio nella realtà. Protagonisti non umani sono le specie aliene, che proliferano arrivando un po’ dal Canale di Suez, un po’ dal trasporto marittimo nell’acqua di zavorra delle grandi navi: sono numerose anche per l’enorme crescita della globalizzazione, con merci in arrivo da tutto il mondo. Nel Mediterraneo più caldo trovano condizioni congeniali alla loro stabilizzazione e proliferazione, paradossalmente più delle specie autoctone. Altri protagonisti sono i paesaggi che cambiano, il Mediterraneo che si sta trasformando anche sulle coste. Isole di pescatori che diventano turistiche, perdendo l’identità. Le isole Kerkennah in Tunisia sono un luogo molto emblematico di tutto ciò che sta avvenendo nel Mediterraneo. Vedono un’emigrazione massiccia perché la tecnica di pesca tradizionale non funziona più a causa dell’arrivo di una specie aliena, il granchio blu. I giovani decidono di andare in Sicilia; l’isola si spopola ed è come se venisse lentamente erosa, inghiottita dal mare: i paesaggi cambiano perché non sono più curati dagli uomini».

La crisi ambientale diventa una crisi economica e sociale, che porta all’emigrazione: le barche dei pescatori passano agli scafisti.

« Chi può comprare delle barche in un’isola nel sud della Tunisia a 100 miglia nautiche da Lampedusa? Ovviamente chi le usa in un altro modo. E partono i giovani, che avrebbero potuto vivere di pesca, oppure i figli degli agricoltori, alla prese con un altro settore in forte crisi produttiva per i cambiamenti climatici e il sovrasfruttamento delle risorse. Sulle isole Kerkennah non si vedono più giovani, partiti per la Francia e l’Italia. Sono migranti ambientali, perché i luoghi dove sono nati e vivevano i loro antenati non consentono più di svolgere le attività tradizionali, ma non sono riconosciuti giuridicamente come tali. Allora partono da minorenni perché sanno che a quell’età non sono espulsi e finiscono per infilarsi in un dedalo di norme complicate».

«L’Unione europea ha posto una serie di limitazioni: la pesca a strascico, particolarmente invasiva, è stata giustamente molto ridotta. Il mercato, però, continua a richiedere pesce. Lo sforzo di pesca delle flotte italiane, spagnole, francesi si è spostato sulla riva sud»

Da dove arriva il pesce sulle nostre tavole?

«Si assiste a un’esternalizzazione dello sforzo di pesca. L’Unione europea ha posto una serie di limitazioni: la pesca a strascico, particolarmente invasiva, è stata giustamente molto ridotta. Il mercato, però, continua a richiedere pesce. Lo sforzo di pesca delle flotte italiane, spagnole, francesi si è spostato sulla riva sud. Tunisia ed Egitto hanno sviluppato flotte industriali con un atteggiamento ancora più impattante, sostenute dai governi come in Europa negli anni ’60. Rimane un’enorme sforzo di pesca in un mare diventato molto povero di pesce perché sovrasfruttato. Continuiamo con il modello “business as usual”? Il Mediterraneo non si può più permettere la pesca industriale. Si deve rivedere il paradigma dello sfruttamento delle risorse».

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