«Il cinema è un tuo sogno da condividere»

IL PERSONAGGIO. Proseguono le interviste in collaborazione con «Il Giornale di Brescia». L’attore Giorgio Pasotti ha terminato le riprese di un thriller e una commedia con Lillo. E torna su Raiuno con «Lea».

Ha recitato in molti dei film italiani più visti degli ultimi vent’anni, diretto da Daniele Luchetti, Gabriele Muccino, Carlo Vanzina. Con Paolo Sorrentino e il suo «La grande bellezza» dieci anni fa ha anche respirato l’aria dell’Oscar (miglior film straniero). Da tre anni guida il Teatro stabile d’Abruzzo dell’Aquila e, con la sala principale distrutta dal terremoto da 15 anni e mai più riaperta, fa numeri (più di 300 repliche a stagione) da stacanovista bergamasco: non sono sfuggiti al ministero, che ogni anno gli aumenta i fondi. Va a recitare Kafka a Milano («Racconti disumani») e la critica lo promuove.

Per non parlare delle fiction di Rai1, che lo hanno reso super-popolare: tra poche settimane torna «Lea», con lui e Anna Valle. Ha appena compiuto cinquant’anni e ha già girato due film: altri due sono in cantiere. Niente male, no? Solo, a furia di calarsi nella parte del bell’attore romano Giorgio Pasotti ha perso (quasi del tutto) l’accento bergamasco. E anche il carattere nella Città Eterna s’è smussato, addolcito.

Lì a Roma, lei fa la vita brillante dell’attore famoso?

«Macché! Detesto star sveglio fino a tardi: dopo lo spettacolo si va a mangiare, ci si abbuffa… A me invece sempre di più piace andare a letto un po’ presto e svegliarmi alle 7: quello è un momento molto creativo, la mattina presto mi metto a scrivere».

Televisione, teatro, cinema: cosa le piace di più?

«Oggi, poter curare ogni aspetto della creazione dell’opera filmica. Prima ero semplicemente attore, avevo un copione e una mia personale visione del ruolo. Ora mi piace partire scrivendo un’idea, un soggetto, e poi seguire tutta la filiera che dà vita a un film».

Cos’ha di così magnetico il cinema?

«Un film implica un sogno, da immaginare e poi da rendere in qualche modo reale. Con i colleghi sceneggiatori si condividono giorni di lavoro e idee, si discute per ore su una semplice battuta... È un momento di grande coinvolgimento emotivo. Poi inizia il lavoro con gli attori sul set, quindi il montaggio, la post-produzione: e a quel punto potresti quasi ricostruire l’intero film, cambiarlo. Infine c’è l’ultima fase, quella del rapporto con il pubblico, dove capisci se la tua idea può essere condivisa. Ogni singola fase ha su di me un fascino potentissimo».

Ha già girato un paio di film, «Io, Arlecchino» e «Abbi fede».

«Sto lavorando ai prossimi. Ho in cantiere due progetti, il primo sul mondo del lavoro: oggi si costringe l’individuo ad alzare l’asticella della competitività per ottenere un posto, ma anche per mantenerlo. Si è diventati molto cinici, spietati l’uno con l’altro, soprattutto dopo la pandemia. C’è ferocia in giro».

Però è con la tivù che un attore «campa».

«Certo. Ho appena finito di girare la seconda stagione di una serie che andrà in onda a metà novembre su Raiuno, “Lea - I nostri figli”, dove io interpreto un medico pediatra dell’ospedale di Ferrara. Con me c’è Anna Valle. Ho finito anche, come attore, un thriller, “Settimo grado”, per la regia di Massimo Cappelli. A Natale andrà in onda un film su Amazon dal titolo “Elf me”, una commedia con Lillo, Claudio Santamaria, Anna Foglietta, Sabrina Guzzanti».

Come vede la cultura bergamasca, in quest’anno in cui siamo Capitale?

«Torno spesso in città ma mi fermo sempre poco tempo, però mi sembra che sia esploso il turismo: persino il Covid ha aiutato, tragicamente, a far conoscere di più questa città e le sue cose belle, tra le quali c’è certamente la sua cultura. Mi sembra che l’unione con Brescia abbia poi valorizzato ancor di più queste terre splendide ma anche poco conosciute. E l’anno non è ancora scaduto, mi aspetto ancora qualcosa di bello. Sono momenti da sfruttare al meglio, occasioni che passano una volta nella vita».

Tanti attori bergamaschi, e anche bresciani sono diventati famosi. Se lo aspettava?

«Onestamente no. Bergamo però, nonostante le sue Mura e la sua apparente impenetrabilità è sempre stata culturalmente molto vivace. Secondo me è una città che ispira, ha un profilo molto potente. La si pensa sempre come una città industriale, con tanta gente che lavora, che spinge l’economia: io credo invece che per sua natura tenda anche a suggerire manifestazioni artistiche».

Lorenzo Lotto, Gian Battista Moroni, Gaetano Donizetti le danno ragione. Lei per la Capitale non fa niente? Non ha appuntamenti in Bergamasca?

«Mi hanno proposto una lettura in provincia, in una chiesa sconsacrata».

Leggi anche l’intervista a Stefano CIpani su «L’Eco di Bergamo» in edizione cartacea e cartacea online o sul sito de «Il Giornale di Brescia».

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