Raul Montanari: «La letteratura in questa terra non è di casa»

Interviste allo specchio. Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con Il Giornale di Brescia e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bergamasco e uno bresciano, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bergamasco. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bresciano, invece, vi rinviamo a Il Giornale di Brescia: il link in fondo all’intervista.

Abbiamo chiesto allo scrittore Raul Montanari come è messa la letteratura in questa Capitale della Cultura.

«Io - risponde - collaboro a un progetto del Teatro degli Incamminati legato alla parola, si chiama “Inedita, nuovi racconti per antichi castelli”: l’idea è stata quella di prendere 12 luoghi tra Bergamasca e Bresciano, castelli ma anche palazzi antichi, con un potenziale narrativo, e chiedere ad alcuni docenti di scrittura creativa – uno sono io ma c’è ad esempio anche Alessandro Baricco con la Scuola Holden - di segnalare allievi che fossero in grado di scrivere un breve atto unico, un monologo che partisse da leggende legate a quei siti: Francesco Meola farà Palazzo Bazzini a Lovere, Fabienne Agliardi ha lavorato su Darfo. Ho sfogliato però l’elenco completo dei progetti di Bergamo per la Capitale della Cultura e non c’è, si può dire, quasi nulla dedicato alla letteratura “pura”. Prevalgono nettamente arti visive, musica, cultura del territorio. La cultura bergamasca, mi viene da dire, è quella. La parola si presenta solo accompagnata dalla messa in scena. Ciò mi colpisce, e conferma l’idea che ho sempre avuto che da noi la cultura di parola sia la grande assente. Chi conosce questo popolo sa che la misura classica del bergamasco è la brevità. Te ne accorgi persino dalle barzellette: quando io da ragazzino passavo le estati nella mia casa di Castro, sul lago d’Iseo, provavo a raccontare qualche barzelletta “lunga”, affabulatoria ai miei compagni ma non mi seguivano: per loro l’umorismo si esprimeva attraverso la freddura, la battuta secca. Al bergamasco sembra che manchi il gusto di raccontare. Infatti, se guardiamo al nostro contributo alla storia della letteratura italiana è veramente scarsissimo: abbiamo avuto Donato Calvi, Giovan Francesco Straparola e veramente poco altro: nomi che mettono appena un alluce nelle storie della letteratura italiana, nei licei non vengono studiati nemmeno come minori. Se tu cerchi su Google “scrittori bergamaschi” compaiono 10 fotografie e uno di essi, pur partendo dal 1600, sono io: non siamo messi proprio benissimo. Se ci paragoni ai colossi dell’architettura, della pittura, della scultura o della musica bergamasca ti rendi conto che c’è una sproporzione evidente. Sia Bergamo che Brescia sono grandi città d’arte, e anche nel territorio c’è questa cultura diffusa, ogni borgo ha la sua chiesa storica, il suo castello, il suo monastero, i suoi preziosi dipinti… Nelle valli bergamasche per tradizione non c’era una famiglia che non avesse un pittore o un musicista. Le bande municipali suonano repertori avanzatissimi, anche musica del Novecento, non le marcette. La poesia invece, in questa Capitale della Cultura è praticamente assente. Del resto nel linguaggio corrente, almeno della mia generazione, “poeta” – chel lé l’è ü poeta - voleva dire una persona stramba».

Ne fa un dato quasi antropologico.

«La cultura della concretezza non è solo un luogo comune. Questa è una differenza netta fra Bergamo e Brescia, che ha autori come Aldo Busi, o Luca Doninelli… Proprio lui mi faceva notare che in questa Capitale non c’è niente in programma su Papa Giovanni XXIII. La sua popolarità è anche in questo caso legata all’immagine di un Papa “del fare”: eppure se pensiamo al famoso Discorso della Luna, la retorica e la dialettica le sapeva maneggiare eccome, aveva una padronanza della parola straordinaria, era un uomo estremamente capace di comunicare. Paolo VI, bresciano, passa come una figura molto più intellettuale. La verità, lo dico da laico, è che sono state due personalità importanti del Novecento, non solo perché hanno cambiato il mondo, ma anche sul piano letterario».

Negli ultimi vent’anni stiamo assistendo a un pullulare di gente che scrive libri.

«Quello dappertutto. La qualità però è bassissima. In Italia c’è più gente che scrive che gente che legge: e non è una battuta».

A cosa serve, invece, la letteratura? Perché dovremmo preoccuparci della sua latitanza?

«La letteratura è una rete che intercetta qualcosa che nessun altro mezzo umano coglie: i sentimenti, le relazioni, l’interiorità. Una cosa è leggere un saggio di psicologia, pur ben fatto, altro è leggere un romanzo, magari sullo stesso argomento. Il romanzo è una rete che ha delle maglie disposte in un modo particolare - a losanga, o a forma di triangolo scaleno... - nella quale restano impigliate cose che altrimenti ci sfuggirebbero. La letteratura è un atto di conoscenza. Infatti grandi saggisti che hanno descritto l’animo umano, a partire da Sigmund Freud, vi hanno attinto a piene mani, e dichiaratamente. È uno strumento che aiuta a cogliere aspetti della realtà che non troverai mai su Wikipedia, e che diversamente non riusciresti ad afferrare».

Leggi sul sito del Giornale di Brescia l’intervista alla scrittrice Camilla Baresani, pubblicata anche su L’Eco di Bergamo in edizione cartacea.

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