Mi comportavo come una super eroina, la malattia mi ha insegnato l’umiltà

Erika Fragnito Colpita da sclerosi multipla quando aveva 18 anni, riesce a convivere con fatiche e sofferenza.

Il punto di partenza è una maschera bianca. Poi Erika Fragnito ha usato forbici, colla e una vecchia rivista dell’Associazione italiana sclerosi multipla (Aism) per trasformarla in un’opera d’arte. Un gesto simbolico per aiutarla a rompere il silenzio, per superare il timore dei giudizi della gente, perché questa malattia, spesso invisibile, può trasformarsi ancora in uno stigma per chi ne è affetto.

«È molto faticoso per me - spiega Erika, 32 anni - parlare di questa condizione. L’arte mi aiuta, è un mezzo di espressione potente. La maschera ancora non l’ho finita, ma è un simbolo, indica la volontà di uscire dai miei nascondigli e di affrontare il mondo, così come sono. C’è voluto un grande lavoro su me stessa per arrivare a questo».

«La vita è un palcoscenico, e noi siamo soltanto attori», scrive Shakespeare, e per il protagonista di uno spettacolo la maschera è strumento per mettersi nei panni di qualcun altro. Per Erika invece crearne una è la strada per ritrovare se stessa, dare forma alle sue paure ed esorcizzarle. Quando dipinge - una delle passioni scoperte dopo la diagnosi - usa molto colore, creando forme materiche, tridimensionali: come se ogni volta con il pennello potesse dare vita a un nuovo pezzo di mondo, fatto su misura per lei.

Erika ha 32 anni, nei suoi occhi c’è sempre un sorriso. Il suo racconto scorre impetuoso come l’acqua di un fiume: «Da tanto tempo desideravo raccontare la mia storia, ma mi è servito tutto il mio coraggio». Da tre anni vive a Bolgare con il suo compagno Daniele. I suo genitori, Nicola e Grazia, sono comunque a un quarto d’ora di distanza: «La mia famiglia è un punto di riferimento fondamentale per me. Nei momenti più difficili so di poter contare sui miei genitori, su mio fratello e mia sorella, sempre vicini».

La diagnosi è arrivata quando Erika aveva solo 18 anni: «Stavo per finire le scuole superiori a Bergamo, all’istituto Belotti, e stavo meditando di iscrivermi all’università. Poi una mattina, all’improvviso, mi sono accorta che non vedevo dall’occhio destro. Sono miope e astigmatica, ho pensato che si trattasse di un disturbo visivo temporaneo dovuto allo stress. In quel periodo mi dedicavo con molto impegno allo studio e a volte mi sentivo sotto pressione. Sono andata dall’ottico di fiducia che però mi ha consigliato di rivolgermi subito a un oculista. Ho fissato una visita per il giorno successivo, e sono infinitamente grata al medico, che dopo una visita accurata, ha intuito subito che alla base di quel problema potesse esserci una causa neurologica, e mi ha spinto ad approfondire con ulteriori esami all’ospedale di Bergamo».

Era l’aprile del 2008, Erika ricorda ogni momento con precisione: «Esaminando l’ampiezza del campo visivo, è risultato evidente che c’era un grosso deficit da un lato. Subito dopo sono approdata nel reparto di neurologia, dove ho conosciuto medici e infermieri che tuttora mi supportano all’ospedale Papa Giovanni XXIII. All’inizio non era chiaro quale fosse la mia patologia, gli specialisti avevano formulato diverse ipotesi. La sclerosi multipla era l’unica malattia di cui avevo sentito vagamente parlare in tv, e proprio per questo ne ero terrorizzata. Quei venti giorni trascorsi ricoverata in reparto, sottoposta a mille test, non sono stati sereni». Quando sono arrivati gli esiti la situazione se possibile è peggiorata: «Ero già sull’orlo di una grave depressione, avevo iniziato a saltare i pasti. La neurologa mi ha spiegato che cosa avevo senza tanti giri di parole. Mi è crollato il mondo addosso, ma poi l’ho ringraziata per essere stata così chiara e diretta».

Quel verdetto ha mandato in pezzi Erika, come l’esplosione di una bomba: «Fino a quel momento avevo vissuto nella convinzione che i miei genitori fossero onnipotenti e potessero risolvere qualunque problema. Quel giorno, però, ho visto la paura sui loro volti. È toccato a me aiutarli ad accettare la situazione».

Eppure Erika ha avviato subito - senza esserne pienamente consapevole - la sua strategia di resistenza: «Ho iniziato a pormi mille domande. La dottoressa mi ha detto: “Oggi non apprezzi i fiori, ma domani apprezzerai anche quelli”. Mi sono chiesta cosa volesse dire. In quella frase c’era il mondo, la consapevolezza di quanto fosse importante essere attenta ai dettagli, assaporare le piccole cose, le conquiste quotidiane».

In quel momento, però, Erika si è trovata in una situazione complicata per una ragazza della sua età: «Le mie amiche si lamentavano per un’unghia scheggiata, io cosa dovevo dire? Mi sentivo fuori posto e mi arrabbiavo perché ero stata costretta a crescere prima. In quel momento negavo la malattia, non volevo neanche ammettere di aver bisogno di aiuto. Mi comportavo come una supereroina, come se bastassi a me stessa. Solo dopo anni ho accettato di andare da una psicologa, perché avevo bisogno di aiuto per affrontare lo stress delle cure».

Le terapie sono iniziate sei mesi dopo la diagnosi: «Per sette anni ho convissuto con un farmaco invasivo dagli effetti per me devastanti. Il pensiero di doverlo assumere e poi gli effetti che ne derivavano occupavano tutto il mio tempo. Cercavo lo stesso di rubare qualche mezza giornata a questa nuova routine e di portare avanti la mia vita. Ho dovuto accantonare il desiderio di proseguire gli studi. Chissà, forse un giorno riuscirò a riprendere, mi è rimasto il grande sogno di iscrivermi alla facoltà di Psicologia, una disciplina che può cambiare la prospettiva sulla vita, come ho sperimentato su me stessa».

Ha attraversato un lungo purgatorio prima di trovare un posto di lavoro adatto a lei: «Ora ho trovato un impiego in una ditta che si occupa di fiere, in Italia e all’estero. Al colloquio ho spiegato chiaramente la mia situazione, ho pensato che fosse l’unica scelta possibile. Sono molto felice di questo lavoro, grazie ad esso posso soddisfare la mia passione per la diversità: entriamo in contatto con moltissime persone, e imparare a conoscere il loro modo di pensare è il punto di partenza per capire il resto».

Dover convivere con la malattia l’ha spinta a guardare il mondo da un’altra prospettiva: «Prima ero molto più metodica, a un certo punto ho capito che ogni tanto dovevo lasciar andare, questa è stata una grande lezione della sclerosi multipla. Non mi sono rassegnata, ma ho imparato a osservare con più attenzione ciò che accade. Le dinamiche della vita sono complesse, ho letto tanti libri spinta dalla curiosità e dal desiderio di comprendere meglio. Ho imparato che non si possono trattare gli eventi come un conto economico, non è possibile far tornare sempre i numeri, ci sono tanti aspetti che sfuggono al nostro controllo, e questa consapevolezza mi ha aiutato».

L’associazione Aism (www.aism.it) è diventata col tempo un punto di riferimento: «All’inizio osservavo da lontano, ero ancora nella fase di negazione della malattia. Ho iniziato ad avvicinarmi a piccoli passi, scrivendo qualche messaggio via internet. Poi ho partecipato a qualche incontro di persona. Ho imparato molto frequentando i convegni. In seguito mi è capitato anche di affiancare i volontari in attività di sensibilizzazione e raccolta fondi. Ho apprezzato molto la possibilità di potermi confrontare con altri che si trovavano nella mia stessa situazione. Dopo tanto silenzio, alla fine mi è venuta voglia di spendermi in prima persona per far conoscere la sclerosi multipla e aiutare altri come me».

Nel frattempo ha dovuto superare tante difficoltà: «Non era facile conciliare cure invasive e invalidanti con un’attività lavorativa continuativa e remunerata. All’inizio non volevo parlare ai colloqui della sclerosi multipla, ma poi quando stavo male ero comunque costretta a farlo, e non sempre trovavo comprensione. Ho scoperto lungo la strada quante fatiche comporti questa malattia, “multipla” di nome e di fatto, diversa per ognuno e con molte conseguenze: problemi cognitivi, difficoltà motorie, tensione e stanchezza, con sintomi spesso invisibili e difficili da spiegare. E poi ci sono le difficoltà burocratiche e i frequenti controlli medici».

Ora Erika sta seguendo una terapia orale che tollera, come dice lei stessa, «abbastanza bene», ha trovato un equilibrio, è più serena: «Quando ho incontrato il mio compagno sono rimasta sorpresa nello scoprire che anche suo padre aveva la sclerosi multipla. Non è stato un fattore determinante nel nostro incontro, ma di certo ci ha avvicinato e ha favorito la comprensione tra noi. Ho trovato una persona che mi ha accettato così come sono, e ne sono molto felice. Ho iniziato a pensare anche alla possibilità di avere figli, so che ora è possibile». Da quando ha scoperto la sclerosi multipla Erika ha iniziato anche a dedicarsi con slancio allo sport: «Cammino, corro, ogni tanto vado in palestra, seguo corsi di nuoto, mi cimento con il mio compagno in qualche passeggiata a cavallo. Cerco di adottare uno stile di vita sano. Gli esercizi che svolgo ogni giorno da sola a casa sono il momento più importante, solo mio, di cui approfitto per ascoltare con attenzione i segnali del corpo».

È riuscita a incanalare la rabbia e l’energia nelle nuove passioni: «Seguo online lezioni di inglese conversando con persone di altri Paesi. Mi piace molto confrontarmi con la diversità, in qualunque ambito, a partire da quello professionale. È tutto cibo per la mia testa. Sono una persona curiosa, trovo il confronto stimolante. Anche per questo ho iniziato a dipingere: lo faccio per divertimento, senza costrizione, per esprimermi nel modo più creativo possibile. Anche questo è un modo per superare la paura del giudizio e sentirsi finalmente se stessi, liberi di vivere fino in fondo, apprezzando le piccole cose, le passeggiate con i miei cani, i fiori».

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