Partita a scacchi con Mr Parkinson: «Gioco la sfida con la tattica dell’ironia»

Giangi Milesi. Dopo una vita di successo, l’irruzione della malattia. Oggi l’impegno contro il muro del pregiudizio.

Un cavaliere che gioca a scacchi con la morte: è un tema che compare in forme diverse negli affreschi medievali. Tra essi è famoso quello di Albertus Pictor, dipinto intorno al 1490 sulle pareti di una chiesa di campagna di Täby Kyrkby, un villaggio svedese, che ha colpito l’immaginazione di Ingmar Bergman ispirandogli «Il settimo sigillo». È una sfida che coinvolge molto più della coscienza individuale, e affonda nel mistero: Giangi Milesi immagina allo stesso modo di dare forma a Mr Parkinson come suo grande antagonista. Un nemico temibile anche se si può tenere a bada - a differenza della morte - «con le terapie - sottolinea - ma anche con una buona dose di ironia».

«Creare un personaggio è un modo per sdrammatizzare - sorride - ma è anche un’immagine efficace per descrivere l’imprevedibilità della malattia, che compare e scompare ‘a tradimento’ e sembra sempre colpire nei punti più vulnerabili». Giangi, 69 anni, ha costruito una carriera intensa e piena di successi: nei sindacati, in azienda come marketing manager e responsabile comunicazione, con un ruolo di primo piano nel mondo del non profit italiano, prima come volontario e poi come presidente del Cesvi. «Non ho mai avuto paura - racconta -. Nella vita mi sono trovato davanti grandi personaggi, decisioni difficili, ho ricoperto ruoli di prestigio. Ho sempre pensato di essere dotato di un certo equipaggiamento contro le avversità».

A un certo punto, però, è arrivato Mr Parkinson, ospite indesiderato, sparigliando i pezzi: «Mi sono trovato ad affrontare una grave depressione, che mi rendeva tutto molto più faticoso. Ho iniziato una terapia psicologica ma dopo quasi due anni non riuscivo a venirne a capo. La professionista che mi seguiva mi ha insinuato un dubbio, spingendomi ad approfondire la situazione con un neurologo».

Come è arrivata la diagnosi

Senza perdere tempo, Giangi si è rivolto all’ospedale Giovanni XXIII: «È bastata una visita per arrivare alla diagnosi. Mia moglie Susanna è scoppiata in lacrime, ma io mi sono sentito sollevato, perché finalmente potevo dare un nome a quel malessere e capire perché non mi riconoscevo più, non riuscivo a ritrovare nello specchio l’uomo che ero sempre stato, pronto a qualunque sfida. In quel momento mi sentivo disarmato». Era il 2016, e pochi giorni dopo Giangi ha sentito il bisogno di fare «coming out» parlando con i suoi amici: «Condividere con altri ciò che mi stava accadendo per me era un’esigenza. Ho scoperto invece che per altri non era così facile ammettere di avere questa malattia, sulla quale sono ancora diffusi tanti pregiudizi».

Il medico gli ha prescritto una terapia che gli ha dato subito sollievo: «Un amico mi ha consigliato di chiedere comunque un secondo parere, mandandomi da un altro specialista, Luca Barbato. Ho ammirato fin dall’inizio il suo approccio al Parkinson, la sua disponibilità professionale e umana. È stato l’inizio di una bella amicizia che continua ancora oggi».

L’aiuto alle altre persone

Non si è chiuso in se stesso, ma ha ricominciato a guardare la vita come sempre, «cercando di coglierne il disegno». Ha pensato quindi di impegnarsi per aiutare altre persone con la stessa patologia: «Ho incontrato così Marco Guido Salvi, presidente dell’Associazione italiana Parkinson di Bergamo e vicepresidente nazionale. Ho iniziato a svolgere attività di volontariato con lui, seguendo con interesse il suo grande lavoro e cercando di rendermi utile. Poi, sempre grazie a lui, ho conosciuto Giulia Quaglini, vicepresidente della Confederazione Parkinson Italia. Abbiamo instaurato subito un dialogo schietto e costruttivo, e poco dopo lei, con gentilezza ma anche con molta determinazione mi ha coinvolto nelle attività della Confederazione. Così nel giro di due anni e mezzo dalla diagnosi mi sono ritrovato - quasi senza rendermene conto - presidente nazionale di Parkinson Italia. Sono stato proiettato in un mondo completamente diverso che mi ha subito appassionato e coinvolto. Ho avuto la sensazione che ci fosse molto da fare, e mi sono buttato, sfruttando l’esperienza maturata nell’ambito organizzativo e dell’innovazione».

Fra le prime imprese alle quali si è dedicato c’è stata quella di dare vita a una campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema della malattia di Parkinson, per far conoscere più da vicino al pubblico la condizione dei pazienti e l’impegno dei caregiver. «Mi è venuta l’idea di usare uno strumento moltiplicabile e itinerante che potesse essere offerto a ogni singola associazione locale. Una mostra fotografica mi è sembrata l’iniziativa più adatta per immergersi nel mondo del Parkinson cogliendone tanti aspetti diversi».

Il primo nucleo è partito da Bergamo, e il titolo della mostra e la pubblicazione del libro omonimo «Non chiamatemi morbo» sono stati il frutto dell’iniziativa di Marco Guido Salvi e della collaborazione con Aip. Il fotografo Giovanni Diffidenti è entrato nelle case dei malati di Parkinson, catturando gli scatti poi raccolti in una mostra fotografica multimediale che nel tempo è cresciuta, continuando a collezionare storie e racconti in tutta Italia, accompagnata dai dialoghi recitati da Claudio Bisio e Lella Costa nei panni di Mr e Mrs Parkinson: «In questa narrazione - prosegue Giangi - loro cercano di sabotare in ogni modo la vita delle persone che hanno questa malattia, ma incontrano ostacoli e reazioni inaspettate, dimostrazioni di coraggio e di resistenza che “fanno vincere” i pazienti, nonostante tutte le difficoltà, perché per contrastare i sintomi mettono in gioco le loro risorse migliori». La mostra ha già registrato oltre trenta tappe in tutta Italia, compresa quella bergamasca all’Accademia Carrara, e poi in sedi prestigiose come il Maxxi di Roma e di recente al Festival della fotografia etica di Lodi. «Quando chiudiamo l’esposizione c’è sempre qualcuno che dice ‘basta, non mi nascondo più’ e questo per me è il segno che la campagna funziona».

Giangi Milesi prosegue nel suo impegno «per rompere il muro dei pregiudizi» e per migliorare la qualità di vita dei pazienti: «C’è per esempio in cantiere l’introduzione di un ‘Case management’, con la proposta di affidare a un’infermiera specializzata il coordinamento degli interventi necessari al paziente da parte dei diversi specialisti: oltre al neurologo anche fisiatra, psicologo, nutrizionista e così via, per salvaguardare l’organicità del percorso. Ci impegniamo poi per la creazione di una struttura in cui i pazienti contino di più».

Intanto Giangi deve comunque fare i conti con il progredire della malattia: «All’inizio l’avevo vissuta con incoscienza, c’è un periodo che chiamano ‘la luna di miele’ in cui i farmaci funzionano e il paziente ha la sensazione di poter mantenere il controllo. Poi però mi sono reso conto che il Parkinson è un furfante che gioca a scacchi con te. Adesso anch’io intrattengo con lui molti dialoghi immaginari. Ho un disturbo, lo risolvo e subito ne spunta un altro. Prima il ginocchio, poi la spalla, poi la voce. Quando combatti con questa malattia capisci che ognuno segue un percorso diverso, anche per questo è necessario cercare con il neurologo la terapia giusta, misurata in modo sartoriale sulle proprie esigenze. Ora sento davvero mie le battaglie che porto avanti con l’associazione».

Col passare del tempo le pillole sono aumentate e sono cresciuti gli effetti collaterali: «Avverto il sapore amaro dei farmaci e vorrei tanto togliermeli dai piedi, ne conosco tutte le controindicazioni. Sono consapevole però che è necessario trovare un equilibrio. Ottenere una vita di qualità ma che possa anche continuare a essere piena di relazioni, di affetti e di attività. Una persona con la malattia di Parkinson, per di più, deve affrontare la preoccupazione dei caregiver e delle persone care, che tendono a essere protettive: è importante però mantenere la propria autonomia. Ho un amico fraterno che ha la mia stessa malattia e questo è un conforto prezioso. Ci sentiamo tutti i giorni e confrontiamo le nostre condizioni. Ci accadono a volte cose sgradevoli e tra noi possiamo parlarne liberamente».

I farmaci e il sistema nervoso

Non bisogna sottovalutare gli aspetti psicologici della malattia: «A volte accade che essa esasperi qualche tendenza compulsiva che ognuno manifesta in modo personale, perché i farmaci influiscono anche sul sistema nervoso. Non sempre quando mi guardo allo specchio mi riconosco, non sempre capisco quanto ci sia di me e quanto della malattia. Attraverso i dati dell’Osservatorio nazionale sto avviando delle indagini per approfondire questi aspetti del Parkinson e le interazioni che essi hanno con i farmaci».

L’estate scorsa Giangi Milesi ha seguito con stupore e curiosità la storia di Lorenzo Sacchetto e di sua moglie Raffaella, arruolandoli per la campagna nazionale: lui, malato di Parkinson, aveva subito da meno di sei mesi un’operazione di Dbs, Deep Brain Stimulation (stimolazione profonda del cervello per ridurre i movimenti involontari). Sono partiti da Padova per un pellegrinaggio a Roma percorrendo 500 chilometri in bici. «Ero scettico e sono rimasto stupito dalla loro tenacia. Mi ha colpito il fatto che questo viaggio abbia perfino portato un miglioramento significativo nelle condizioni di Lorenzo: il medico che l’ha visitato alla fine gli ha detto che poteva mettere da parte le stampelle, prima indispensabili per camminare. Mi sono reso conto che davvero tra le persone con la malattia di Parkinson accadono piccoli miracoli. Anch’io sto scrivendo un libro a otto mani, un’impresa di cui non mi credevo capace. La malattia da un lato toglie, e dall’altro incoraggia a vivere pienamente, mettendo in campo le energie migliori, facendo emergere eccellenze e passioni».

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