Donne vittime di violenza: infermieri in prima linea

Riconoscere il problema. L’assistenza a queste persone parte da un semplice sguardo, da una parola delicata o da un sorriso che le possa mettere a loro agio.

Quando si pensa alla violenza vien difficile associare l’infermiere a questo termine. Del resto, nel pensiero corrente, si è soliti pensare che la donna vittima di violenza venga salvata il più delle volte dalle forze dell’ordine, dal medico di base o da un sacerdote. Invece, il primo sorriso, il primo volto accogliente, i primi occhi della sanità, immediatamente sopra il bordo della mascherina sono proprio quelli di un infermiere, che diventa l’attivatore di un percorso di salvezza da quel tunnel buio e doloroso chiamato «violenza», soprattutto se intrafamiliare. Il marito tanto desiderato, il fidanzato dei propri sogni e, perché no, il padre tanto amato, si accanisce sino a che la donna non accende l’interruttore alla vita, per spegnere quello della violenza.

La violenza sulle donne è stata riconosciuta come un problema di portata globale e le linee guida del ministero della Salute hanno portato all’istituzione nei pronto soccorso dei cosiddetti «percorsi rosa». Spesso la prima persona che incontra, la prima figura professionale che dona voce ai lividi del suo corpo è proprio un infermiere, magari al servizio di Pronto Soccorso, dove a leggere tra le righe di un racconto celato, oppure durante una puntura intramuscolare scorge un livido, un ustione che la donna non voleva dichiarare. Perché no, un’infermiera che senza la divisa, davanti all’armadietto della palestra scorge la signora accanto che frettolosamente si riveste dopo lo sport, con un occhio veloce all’orologio ed una crema coprente, osserva che la sua velocità non è per le faccende domestiche ma a causa di una spalla deforme e un gomito gonfio che profuma di frattura.

Negli anni la figura dell’infermiere è cambiata, divenendo da ombra del dottore, a luce sempre accesa per tutti i tipi di assistenza, perché insita nell’infermiere la capacità di parlare la stessa lingua del paziente, pronto ad ascoltare ciò che senza parole viene richiesto anche se non riguarda il mero ambito sanitario. Quello che sempre viene insegnato tra i banchi di infermieristica è il sapere, saper fare e sapere essere, ma nulla ti prepara spesso all’essere impotente davanti ad un destino crudele, ad una malattia grave; nessuno ti prepara ad assistere al dolore causato per mano di un altro essere umano.

L’infermiere nel suo saper essere ha quella sensibilità e quelle capacità relazionali necessarie per un ascolto autentico della donna vittima di violenza. È in grado di riconoscere i segnali ed insieme alla donna, capire quali percorsi attivare e quali altre figure coinvolgere nel suo percorso di aiuto. Perché l’assistenza a queste donne parte da un semplice sguardo, da una parola delicata o da un singolo sorriso sentito che le possa mettere a loro agio. La tematica della violenza di genere e dei femminicidi è un fenomeno in crescita ed il ruolo degli infermieri non è solo quello di attivarsi per denunciare, rilevare o evidenziare privazioni, violenze o maltrattamenti; bensì quello di rendersi parte attiva per tutelare l’essere umano.

*Infermiera iscritta a OPI Bergamo

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