Un Dna, un cappello e 2 sorelle. Il giallo del bandito-pensionato

ROMANO. Un 72enne a processo 12 anni dopo l’assalto a una stazione di servizio. La traccia genetica è sua, ma le vittime non lo riconoscono.

Il match fra la traccia genetica repertata sul cappellino sfilato al rapinatore da una delle vittime e il Dna dell’imputato era arrivato nel 2021, dieci anni dopo il colpo, quando il fascicolo contro ignoti viaggiava verso una quasi certa archiviazione. A processo è così finito un 72enne, più della metà dei quali passata dietro le sbarre. Ma la descrizione dell’autore fornita dalle due sorelle che gestivano la stazione di servizio di Romano assaltata il 13 giugno 2011 (bottino: 500 euro, più un assegno da 5.000 non incassato), quando l’uomo risultava latitante dopo la fuga dai domiciliari, non coincide con l’imputato. Una delle due donne ha raccontato che il rapinatore era alto un metro e 80 centimetri, mentre la statura del 72enne (che martedì non era presente all’udienza e che si è sempre proclamato innocente) è inferiore al metro e 75 centimetri.

Una cosa però è quasi certa, ed è emersa pubblicamente solo all’udienza: chi ha assaltato il punto vendita del distributore di carburanti, qualche giorno prima aveva rapinato una delle due sorelle. «Mi era successa la stessa cosa non più di una settimana prima – ha ricordato Roberta, 53 anni –. Dopo il lavoro sono tornata a casa e quando ho parcheggiato l’auto mi si è avvicinato un signore che mi ha puntato la pistola. Forse era convinto che avessi con me l’incasso della giornata. Io per quella rapina non ho dormito per un anno».

Il malvivente si era accontentato della la borsa («Costosa», ha precisato lei) della donna e poi aveva svuotato gli oggetti contenuti, «che ho ritrovato nel bagno del distributore dove lavoro», ha rimarcato la 53enne. «Per questo motivo – ha proseguito Roberta –, quando qualche giorno più tardi nello shop della stazione di servizio ha fatto irruzione il bandito, ho subito detto a mia sorella: “Mary, è lo stesso di casa”. Aveva lo stesso odore, la stessa pistola, simile corporatura e altezza. E lo stesso cappello. Sono sicura che era la medesima persona. Ma non sono in grado di riconoscerla perché l’ho vista solo a volto coperto».

Chi lo ha parzialmente visto è la sorella Maria, 58 anni: «È entrato e ci ha puntato la pistola urlando: “Datemi i soldi!”. Glieli abbiamo dati. Poi io l’ho inseguito, sono riuscita a togliergli il cappellino e a strappargli parzialmente il passamontagna. Lui mi ha puntato la pistola e mi ha detto: “Sei proprio una cretina!”. Aveva capelli folti scuri, sarà stato sulla sessantina, alto un metro e 80. Urlava mia sorella, urlavo io, ma nessuno dalle case vicine, tutte con le finestre aperte, si è affacciato per vedere se avevamo bisogno di aiuto».

A Maria i carabinieri avevano mostrato alcune foto segnaletiche, compresa quella dell’imputato, ma lei non l’aveva riconosciuto. Chi sia il rapinatore mascherato resta così un mistero, e vedremo come lo risolverà il collegio di giudici presieduto da Giovanni Petillo: da una parte c’è infatti la traccia del Dna del 72enne sul cappellino, dall’altra il mancato riconoscimento da parte delle vittime. «Ma può essere che il cappello lo abba regalato a qualche compagno di cella – spiega a margine del processo il difensore, Pietro Ferrari –. È usanza che, quando uno esce dal carcere, lasci in dono oggetti agli altri detenuti». Bisognerebbe sentire i due uomini che erano in cella con lui nel periodo precedente alla rapina. Ma sono entrambi morti. Prossima udienza il 5 marzo: verranno sentiti un maresciallo del Ris di Parma e l’imputato.

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