Padre, figlio e il vigneto restituito alla montagna

LA STORIA. Lino e Mario Mussitelli hanno recuperato tre chilometri e 200 metri di muretti mettendo finalmente a frutto i terreni. E ora si imbottiglia.

Tre chilometri e duecento metri: è la lunghezza dei muretti a secco ripristinati per restituire un vigneto alla montagna, liberandolo da rovi e arbusti dopo decenni di abbandono, come un vecchio libro su cui si soffia per allontanare la polvere e i segni del tempo. Lino Mussinelli, 41 anni, e il padre Mario, 70 anni in questi giorni, hanno guidato questo lavoro nella «loro» Adrara San Martino, su quell’appezzamento appena sopra il centro abitato dove Mario, negli anni Sessanta, ricordava di aver vendemmiato da bambino. Inizia dalla spinta di una memoria lontana, il viaggio che li ha portati a scoprire questi enormi gradoni coperti dal dilavamento e dalla sterpaglia attraverso anni di interventi e di pazienza, alimentati da sforzi molto diversi da quelli manuali di decenni e secoli fa, quando la tecnica non si sostituiva ai muscoli.

In alcuni punti, le pietre si incasellano una sopra l’altra fino a superare i quattro metri di altezza. Pareti verticali che raccontano le pendenze severe che i contadini dovevano domare per sostenersi nel territorio difficile dove erano nati e cresciuti.

I muretti a secco non solo un’eredità culturale dell’attività agricola montana, ma un bene Unesco a pieno titolo, tanto che la loro tecnica di fabbricazione è inserita dal 2018 nella lista dei Patrimoni mondiali immateriali dell’umanità. «In certi luoghi - spiega Lino Mussinelli, che come primo lavoro guida un’azienda operante nel settore tessile - essere viticoltori non significa soltanto produrre vino: significa custodire e tramandare pratiche e modelli di gestione del territorio unici, pensati con coraggio da chi è venuto prima di noi». Oggi, a sette anni dalla prima avventurosa passeggiata tra i rovi muniti di falcetto e guanti, il frutto del loro lavoro sta per venire alla luce: presto imbottiglieranno il loro primo vino.

Un prodotto sicuramente diverso da quello che si otteneva dal vigneto di sessant’anni fa, e che è figlio di due impianti a spalliera del 2018 e del 2022 (un ettaro e mezzo a varietà merlot e petit verdot). «Ogni volta che sono in vigneto - aggiunge Lino - provo meraviglia e stupore. Si respira un retaggio unico, capace di dare grande valore alla terra e che, secondo me, esprime la determinazione e la resistenza tipiche dei bergamaschi. Questo fascino mi ha spinto a verificare se quest’idea avesse senso oggi, con l’obiettivo di dare espressione a un terreno difficile attraverso il vino».

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