«Una vita ad alleviare il dolore degli altri, adesso l’arte mi aiuta a resistere al mio»

La Buona Domenica Roberta Lovati, medico specializzato nelle cure palliative, a Trescore sta affrontando a testa alta il Parkinson.

Essere vicina, sorridente, presente anche nei momenti più difficili: sono sempre stati questi per Roberta Lovati gli ingredienti segreti della cura. Come medico specializzato nelle terapie palliative ha dedicato la vita ad alleviare il dolore degli altri, finché non ha dovuto preoccuparsi del suo, causato dalla malattia di Parkinson. «Ma se fosse stato per me, non avrei mai smesso di lavorare, perché è una passione troppo grande». Non si è comunque mai arresa, ha trovato in sé una tenacia e un coraggio che non conosceva. A salvarla, adesso, sono il disegno - un talento scoperto con la malattia - e la musica, che le hanno donato una seconda vita. Roberta vive a Bresso e ha come punto di riferimento per la riabilitazione neuromotoria l’Ospedale Sant’Isidoro di Trescore Balneario, dove è stata da poco ricoverata, e la neurologa Cristina Rizzetti, responsabile della riabilitazione Parkinson nella struttura.

Una serie di accertamenti

L’esordio della malattia è avvenuto quando aveva soltanto 42 anni, in modo insolito: «Un giorno - racconta - mi sono svegliata senza voce. È successo all’improvviso, non avevo avuto segni premonitori. Pensavo che si trattasse di una laringite. Col passare dei giorni, però, questo sintomo fastidioso non accennava a risolversi, anzi, si sono aggiunti una lieve dispnea (respiro faticoso), e un’altrettanto lieve disfagia, con qualche problema trascurabile nella deglutizione. Ho iniziato una serie di accertamenti ma all’inizio però non emergeva nulla di significativo. Ho proseguito così per due anni, senza capire, poi è comparso un tremore alla mano destra, e io stessa ho iniziato a decifrare i miei sintomi. Così quando il collega neurologo mi ha diagnosticato la malattia di Parkinson non sono rimasta molto sorpresa».

Roberta lavorava all’Ospedale San Paolo di Milano, e nonostante tutto continuava a seguire la sua routine: i turni, i pazienti, le visite ambulatoriali. «Quando ho perso la voce - spiega - nessuno mi capiva, ho dovuto inventarmi mille modi per comunicare, era un disastro. Qualcosa scrivevo, ma era impossibile mantenere il ritmo, ci impiegavo troppo tempo, capivo che i miei interlocutori dopo un po’ si spazientivano. Qualcuno si sforzava di leggere le parole osservando il movimento delle labbra. Cercavo di sfruttare al massimo quel poco di voce che avevo. Quando dovevo rispondere al telefono spesso mi aiutavano i colleghi. Se possibile mi facevo affiancare dai parenti oppure dagli specializzandi. Per me era importantissimo che i pazienti capissero bene la terapia, che spesso aveva un impatto molto forte sulla loro qualità di vita».

Quel periodo di afonia è stato un’introduzione a una fase diversa, a una rivoluzione inattesa. Un prolungato silenzio prima che Roberta riuscisse a riprendere il ritmo, a far tornare nelle sue giornate la melodia dei sorrisi e della speranza : «Il mio collega neurologo era visibilmente preoccupato e a disagio nel comunicarmi la diagnosi. Ho dovuto rassicurarlo. Non mi sono disperata, non mi sono mai persa d’animo. Non ero contenta, ovviamente, ma non l’ho neppure presa così male. Forse per carattere, forse per i termini di paragone a cui ero abituata. Nel mio lavoro mi capita di seguire pazienti con patologie molto diverse: c’è chi ha bisogno di attenuare i sintomi di terapie invasive, come la chemio. C’è invece chi deve affrontare malattie inguaribili, a volte ormai allo stadio terminale, e ha bisogno di essere accompagnato fino alla fine con sensibilità e attenzione».

Da quel momento è iniziato un saliscendi: periodi di stabilità e di relativo benessere alternati a improvvisi peggioramenti. «All’inizio i periodi buoni erano più lunghi. Mi sono accorta poi che quando compariva un nuovo sintomo non se ne andava più. Potevo al massimo bilanciarne un po’ gli effetti con i farmaci. Ho dovuto però coltivare la pazienza e la rassegnazione. Mi sono resa conto strada facendo che dovevo dire addio per sempre a ogni pezzo di me che andava perso».

Il lavoro è la mia vita

Il lavoro per Roberta è stato sempre àncora e stampella: «Sono rimasta al mio posto in ospedale in tutte le condizioni possibili. Mi piace moltissimo il mio lavoro, l’ho scelto per passione, è la mia vita, non avrei mai voluto smettere. Sono abituata a sorridere di me stessa e a usare l’ironia quando mi trovo in difficoltà, l’ho fatto anche nei momenti in cui la malattia mi tormentava. Mi ricordo che accanto al mio studio c’erano gli ambulatori e il centro di valutazione per l’Alzheimer. Un giorno sono passata davanti a un signore che doveva essere valutato, accompagnato da un parente. Stavo male, una gamba mi faceva un male terribile, avevo dovuto farmi accompagnare in ospedale da un amico. Camminavo pianissimo, come una lumaca, così quel signore quando mi ha visto mi ha chiamato: «Dottoressa, lei ha bisogno dell’ospedale». Ho provato una profonda tenerezza per lui, per me stessa e per la fragilità che ormai faceva parte della mia quotidianità». In quel periodo Roberta ha preferito non parlare della sua malattia con i suoi pazienti, nemmeno quando i sintomi erano evidenti: «Mi sembrava di avere il piede in due scarpe. Non ritenevo appropriato condividere la mia condizione con i pazienti. L’importante è che fossero certi che ero in grado di svolgere il mio lavoro prendendomi cura di loro e offrendogli una marcia in più».

«Fortunatamente ho scoperto di avere una buona rete di amici pronta a sostenermi nel momento del bisogno, facendosi carico delle difficoltà, aiutandomi ad affrontarle, se possibile, con leggerezza»

La malattia di Parkinson ha portato Roberta a guardare la sua vita con occhi diversi, riscoprendo il valore dei legami: «Sono sola, i miei genitori sono morti, mio fratello vive lontano, in Brasile. Fortunatamente, però, ho scoperto di avere una buona rete di amici pronta a sostenermi nel momento del bisogno, facendosi carico delle difficoltà, aiutandomi ad affrontarle, se possibile, con leggerezza. In qualche momento è complicato. Non posso permettermi di dire che non ce la faccio, devo sforzarmi, darmi una mossa e andare. Non è facile, e nel futuro sarà anche peggio, perché purtroppo la malattia di Parkinson è degenerativa. Sono un medico, perciò ho una forte consapevolezza di ciò che mi succede, nessuno può indorarmi la pillola. Da tre anni, purtroppo, non riesco più a lavorare, anche se avrei voglia di continuare, perché penso di avere ancora molto da dare. Smettere è stato pesantissimo. Credo sia doloroso per chiunque ritrovarsi al tappeto, messi ai margini dalla malattia, ma ancor di più per chi esercita una professione come la mia, che implica mettersi a servizio degli altri».

La malattia ha spinto Roberta a riscoprire alcuni lati di sé che prima trascurava: «Non pensavo di essere così coraggiosa e tenace. Sono riuscita finora a mantenere la calma anche di fronte a sintomi particolarmente fastidiosi. Anche durante il ricovero per la riabilitazione a Trescore mi è capitato di dover rassicurare altri pazienti di fronte a malesseri che sembravano spaventosi. Sono rimasta sorpresa in modo positivo anche dalla solidarietà che mi ha subito circondato, dalla solidità della rete dei miei amici che non hanno obblighi verso di me, ma continuano ad aiutarmi per affetto».

«Ho un’amica che dipinge. Osservavo le sue opere e mi piacevano moltissimo. All’inizio mi sentivo intimidita all’idea di cimentarmi a mia volta, perché in fondo è qualcosa che non ho mai fatto nella vita e non sapevo da dove cominciare. Lei però mi ha incoraggiato»

Ha ritrovato la sua vena artistica, che il lavoro intenso aveva messo in ombra: «Ho iniziato a suonare il pianoforte quando avevo 7 anni contro il parere dei miei genitori, che avrebbero preferito iscrivermi a un corso di ginnastica. Ho acquisito subito una grande naturalezza nel leggere le note sul pentagramma, e ho studiato molto, con grande passione. Più tardi verso i trent’anni, mi sono innamorata dell’arpa e ho iniziato a suonare anche quella. Certo adesso è difficile, perché le corde risentono del tono muscolare e del movimento delle dita. L’impaccio delle mani e anche la coordinazione mani-piedi influenzano molto la qualità del suono».

L’amore per il disegno è stata invece una scoperta completamente nuova: «Ho un’amica che dipinge. Osservavo le sue opere e mi piacevano moltissimo. All’inizio mi sentivo intimidita all’idea di cimentarmi a mia volta, perché in fondo è qualcosa che non ho mai fatto nella vita e non sapevo da dove cominciare. Lei però mi ha incoraggiato trasmettendomi entusiasmo e invitandomi a provare. Io sono una perfezionista, ma lei mi ha fatto capire che l’importante è divertirsi, senza pretendere di raggiungere risultati eclatanti».

Un effetto collaterale

Così Roberta si è buttata: «All’inizio disegnavo in bianco e nero, cercando uno stile che mi fosse congeniale. Ho seguito qualche tutorial su YouTube, copiando soggetti che mi piacevano. Poi ho proseguito e mi sono accorta che pian piano diventavo più abile e accurata nel tratto. Non so se il Parkinson favorisca questo aspetto, comunque lo trovo un effetto collaterale molto piacevole. Mi sono appassionata a soggetti tratti dal mondo della natura come fiori, paesaggi, animali, in seguito anche ai ritratti. Mi sono proposta di sperimentare sempre tecniche nuove e diverse, dalle matite al carboncino, ai pastelli a cera e agli acquerelli».

«Ho accompagnato le immagini con citazioni tratte dei miei libri preferiti, in cui ritrovo aspetti profondi di me stessa. La passione per il disegno mi ha mostrato come essere felice senza pretendere troppo, senza volare troppo alto»

Ha raccolto in un album le sue tavole preferite: «L’ho immaginato come un diario di viaggio che tiene traccia di ciò che mi è successo in questi anni, con i momenti belli e quelli difficili. Ho accompagnato le immagini con citazioni tratte dei miei libri preferiti, in cui ritrovo aspetti profondi di me stessa. La passione per il disegno mi ha mostrato come essere felice senza pretendere troppo, senza volare troppo alto. È una metafora della vita: bisogna dipingere con i colori che si hanno a disposizione, senza disperarsi per quelli che mancano, evitando di porsi obiettivi troppo elevati, ma senza rinunciare mai alla speranza».

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