«Petasalti», il custode che da dentro la diga vide l’inizio della fine

IL PERSONAGGIO. Francesco Morzenti era il custode della diga del Gleno e unico testimone diretto della tragedia.

Personaggio controverso. Temuto, anche. Diventato quasi leggendario, a cominciare dal soprannome che ne ha accompagnato la fama: Petasalti. Francesco Morzenti, un metro e 66 centimetri di uomo, nato a Teveno, nell’allora comune di Oltrepovo, era il guardiano della diga del Gleno quando la diga si squarciò. L’unico testimone oculare di quanto successe lassù tra i piloni, quella fredda mattina del primo dicembre 1923. Si salvò correndo a gambe levate su per il monte di Oltrepovo e per questo ai più era parso che quel nome, Petasalti, gli fosse stato cucito addosso per questo.

Ma è un equivoco: «Tutti sono convinti che derivi dal fatto che il giorno del “disastro” fosse fuggito velocemente dal muro della diga che stava crollando, salvandosi per miracolo e, secondo alcuni, senza dare l’allarme come sarebbe stato suo compito di guardiano», scrive Sergio Piffari nel suo libro «Le montagne non dormono... Inesattezze, curiosità, riflessioni sul disastro del Gleno».

Ma Morzenti così veniva citato negli articoli pubblicati in quei giorni sui giornali: «Il guardiano della diga è Francesco Morzenti, detto “il Petasalti”, che significa “salterino”». Mansueto Duci, custode delle condotte e della teleferica che portava al cantiere della diga la calce, subito dopo il crollo chiese ai colleghi dove si trovasse «il Petasalti» temendo che fosse stato travolto mentre manovrava la valvola di scarico, come gli era stato ordinato di fare.

Anche lo stesso Virgilio Viganò, titolare della società che aveva realizzato il bacino, giunto al Gleno dopo la sciagura, incontrandolo così gli disse: «Ah, Petasalti, che disgrazia!». È quindi «evidente che il soprannome gli era stato affibbiato precedentemente», conclude Piffari.

La testimonianza del custode

Sta di fatto che quel soprannome pare abbia quasi guidato il destino di Morzenti, quel giorno nefasto. Unico sorvegliante della diga di Pian del Gleno, quella mattina lassù ricevette una telefonata. Ecco il suo racconto, riportato da «Il Secolo» in un articolo del 5 dicembre 1923: «La mattina di sabato – egli dice – alle 6.30 una telefonata mi avvertì che dalla centrale di Molino di Povo si chiede una immissione di acqua nel serbatoio comunicante. (...) Attraverso la passerella correndo. La pioggia cade a scroscio, sulla rampa ancora in costruzione. Mi reco alle due manovelle che regolano le saracinesche. E sto aprendone una, quella che si governa a mano. A un tratto, sento cadere un grosso sasso. Un tonfo sordo. Mi volto sorpreso. Più nulla. Attendo ancora alla mia bisogna, e attribuisco la caduta a un frammento qualsiasi, avvenuto nella montagna. Ma immediatamente, un altro tonfo più vicino mi riempie l’anima di sgomento. E il fragore è accompagnato da un ondeggiamento di mare. Corro verso la cabina, allora, per avvertire telefonicamente qualcuno. Ma non ho finito di ripercorrere la passerella, che tre piloni delle arcate si abbattono. L’acqua avvalla. Tutta la diga è scossa in un ondeggiamento solo. Sono al telefono. Grido: ven zò! ven zò! Un boato enorme chiude la mia voce. Capisco che tutto è inutile, e per un istinto che non so spiegarlo, mi getto fuori dalla cabina. Corro verso la montagna. Passa un minuto. Una eternità. (...) La muraglia d’acqua gorgoglia con un fremito inumano. Sono inchiodato. Vedo il vaso svuotarsi di tutto il suo contenuto».

Il particolare della telefonata per avvisare del disastro verrà poi smentito da altri testimoni, mentre la corsa che lo salvò non fece che alimentare le dicerie che lo volevano dotato di facoltà paranormali, «la fisico», come questi poteri vengono denominati in Valle di Scalve. Tra gli aneddoti a sostegno di questa tesi, quello che coinvolge un contadino di Pezzolo. «Non mungerai più le tue mucche!», si sentì dire dal Morzenti dopo essersi rifiutato di vendergli uno stracchino. E infatti, la sera, le vacche non ne volevano sapere di farsi avvicinare per essere munte. Al contadino non restò che portargli il formaggio e riprese a mungere.

Sollevato dall’incarico di custode – su sua richiesta, disse in tribunale, per minacce ricevute in valle –, Morzenti nel 1935 partì volontario per la campagna dell’«Africa orientale italiana». Morì a Teveno nel 1971.

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