«Io, infermiere costretto a casa
Aiutare si può anche così»

È dura accettarlo, perché per me essere d’aiuto agli altri è più importante che aiutare me stesso». Herbert Zambelli è un infermiere di Humanitas Gavazzeni, 45 anni di Cornale di Pradalunga.

Voce pimpante, uno che non fa giri di parole e che il Covid-19 lo ha visto da vicino, lo ha scampato probabilmente per un soffio e ci ha anche litigato parecchio. Dal 2016 ha scoperto di avere la gromerulonefrite, una malattia ai reni che da tre anni lo costringe a fare la dialisi quattro volte alla settimana. Per questo motivo, da metà marzo, proprio quando il coronavirus stava portandosi via pazienti e colleghi, la scelta sua e dell’azienda ospedaliera è stata una sola: restare a casa.

«Ero arrabbiato, perché la mia malattia mi impediva di fare quello che amo di più: aiutare gli altri – racconta -. Ed ero arrabbiato anche perché lasciavo i miei colleghi, mi sentivo inutile, e nella solitudine ho capito che è più complicato e faticoso restare fermo dentro quattro mura che avere un lavoro che riempie la giornata e la vita». Herbert lo ha scritto anche in un racconto: ha usato la sua passione per la scrittura e ha realizzato un racconto che narra la sua esperienza, ora pubblicata in un libro solidale. «Faccio parte di un gruppo di scrittori emergenti italiani – spiega -. Ventidue delle nostre storie sono state pubblicate in “22 Battiti d’ali”, libro sulla resilienza: il testo è in formato cartaceo e e-book su Amazon e Lulu e il ricavato delle vendite sarà devoluto alla Protezione Civile».

Il racconto di Herbert, letto da lui stesso, è anche sul canale di Humanitas Voice (https://www.spreaker.com/show/humanitas-voice-bergamo): «Faccio l’infermiere da 27 anni, da quattro negli ambulatori di Humanitas Gavazzeni. Ho scoperto di essere malato proprio qui, durante una visita di routine di Medicina del Lavoro nel 2016. Questa malattia ai reni mi è esplosa in faccia – racconta -. Doveva essere una patologia lenta e invece si è rivelata rapida e incontrastabile: tre volte a settimana, da tre anni, sono attaccato per quattro ore a una macchina per la dialisi e sono in lista per un trapianto». Proprio il suo essere immunodepresso lo blocca a casa da metà marzo: «Fino a dopo Pasqua, e il fermarmi è stato uno choc: non potevo fare il mio dovere per una malattia che non era stata mai un problema, ma che ora metteva in pericolo me e di conseguenza chi lavorava con me per i possibili contagi. Lo stop forzato è stato duro da accettare. In queste settimane di solitudine ho deciso di tenere la sveglia alle sei e trenta del mattino, proprio come nei giorni di lavoro: mi faceva sentire ancora vivo nella mia impotenza».

Fino a quando, grazie anche alla scrittura, Herbert legge il momento in modo differente: «Restare a casa era un modo per aiutare i miei colleghi: non mi sono ammalato e ora sono tornato a dare il cambio ai compagni che adesso hanno bisogno di riposarsi, di recuperare. Di guarire».

Il rientro è stata un’emozione: «E l’emozione sono state tutte le volte in questi mesi senza lavoro che da Pradalunga raggiungevo l’ospedale per la dialisi. Il mio ospedale, i miei colleghi, i compagni di cura – ricorda -. Ho visto la malattia, il dolore. L’ho visto con gli occhi del malato e dell’infermiere. Una duplice sofferenza, per poi tornare in Val Seriana, nella mia Pradalunga ferita in maniera così violenta». Ora Herbert è tornato in corsia, con la stessa grinta di sempre. La stessa forza. E la lezione imparata e scritta nel racconto: «Puoi essere un eroe anche da casa tua. Il volersi bene è già un gesto eroico». 

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