Anita, dall’Australia a Singapore
per i colossi della moda

Anita Galimberti, 36 anni, lavora per il gruppo Kering. Viaggiare le è sempre piaciuto, e peraltro è un vizio di famiglia. «Mio fratello Francesco ha fatto 15 anni di villaggi turistici, sparsi in tutto il mondo. E io prenotavo le vacanze dove lavorava lui, così con la scusa di andare a trovarlo ho girato ovunque. Una passione ereditaria, credo che i miei genitori ci abbiano messo sull’aereo quando appena ci reggevamo in piedi».

Solcare i cieli e i mari, conoscere il mondo, scoprire e sperimentare, il tutto sorretto dalla passione per le lingue straniere. Alla fine Anita Galimberti ne ha fatto una ragione di vita: oggi vive a Singapore, «dove ci sono 30 gradi tutto l’anno. Non ho praticamente maglioni, il mio armadio è unistagionale». Bisogna dire che, mentre Bergamo scende sotto zero, mette un po’ d’invidia pensare che dall’altra parte di Zoom ti rispondono seduti a cavalcioni sull’equatore: «A Singapore si vive bene: è una città pulita ed efficiente, stimolante dal punto di vista professionale ed economico. Però non sono abituata a pensare in termini definitivi: per il futuro, che sia prossimo o remoto, chissà…».

L’anima di Anita, forse si è capito, non è di genere stanziale. Lo stesso il marito Andrea, nato in Sardegna da genitori veneti, incontrato in Australia: «Lui ha fatto più o meno come me: a un certo punto ha deciso che l’Italia gli andava stretta ed è salito su un aereo. Ci siamo conosciuti a Sidney, dove io sono andata nel 2013».

Ecco, torniamo al 2013: «Lavoravo presso un’accademia di moda di Milano, facevo l’interprete per gli stranieri che venivano da tutto il mondo per studiare il made in Italy. Ero entrata nel settore davvero per caso, cercando solo di far fruttare la laurea in lingue: avrei potuto finire in una qualsiasi azienda di import-export, invece il destino ha voluto darmi un input preciso che, anni dopo, mi avrebbe spianato la strada».

Di certo, quello non era il lavoro della vita: «Contratto precario, stipendio pure. In corpo sentivo la smania di partire, accompagnata dalla volontà di perfezionare il mio inglese: ma in Inghilterra – pensavo – ci posso sempre andare, così ho fatto una scelta drastica puntando sull’Australia. Sapevo che era un bel posto, ho scoperto un paradiso terrestre». Il che non significa che sia stato semplicissimo: «Ho cominciato con il più scontato dei mestieri: sei mesi di cameriera, messi da subito in conto nella speranza che, guardandosi attorno, arrivasse l’occasione giusta».

L’occasione è arrivata rispolverando le attitudini abbozzate ai tempi dell’accademia di moda: «Ho trovato lavoro presso una stilista australiana, mettendo a frutto l’esperienza milanese; poi ho cercato un impiego ancora migliore e l’ho trovato nella sede australiana di Bottega Veneta, brand di Vicenza molto famoso a livello internazionale. Potevo contare su un lessico specialistico e un inglese fluente, me li sono giocati a ogni colloquio: e per loro avere sul posto una referente italiana era la soluzione ideale».

A Sidney, come detto, Anita ha conosciuto Andrea ed è rimasta cinque anni, tenendo contatti continui con le sue origini: «A Treviglio, dove ho ancora tutti i miei affetti, tornavo per le ferie o le vacanze di Natale: e ogni volta dovevo fare i conti con i costi e le distanze di quei viaggi che duravano un’infinità. L’Australia, lo ripeto, è meravigliosa e io l’ho amata tantissimo: però ci sono momenti in cui ti senti davvero alla fine del mondo e così ho cominciato a pensare di avvicinarmi un po’ all’Italia».

L’idea ha fatto capolino, poi ha preso forza incoraggiata da prospettive invitanti: «Sono entrata a far parte del gruppo Kering (un colosso nel campo della moda, ndr), gestisco i suoi brand nelle zone del sud est asiatico. Andrea lavora invece per Amazon: entrambe le società hanno una sede a Singapore e così organizzare il nostro trasferimento è diventata una scelta professionale e geografica. Da qui in un attimo raggiungi posti strabilianti e per tornare in Italia bastano 11 ore di volo: ti imbarchi la sera e la mattina ti svegli a Milano».

Quest’anno, però, ogni piano di rientro è andato a monte, frantumato da una pandemia che a Singapore è stata tenuta sotto controllo: «In un’isola di dimensioni contenute non è impresa impossibile, tanto più che il primo lockdown è stato rigidissimo e le misure successive ferree: mascherina obbligatoria ovunque e poche concessioni. Qui devi lasciare qualcosa dal punto di vista della libertà, ci sono telecamere dappertutto: però se rispetti le regole vivi tranquillo, in un sistema che funziona, dove la burocrazia è rapida e la sicurezza garantita. Quando usciamo di casa non chiudiamo neppure la porta a chiave».

Le feste di Natale, trascorse con amici italiani all’insegna di un menù rigorosamente tricolore («Le nostre famiglie ci hanno spedito pacchi di prelibatezze tradizionali: formaggi bergamaschi, specialità sarde, panettoni»), hanno messo fine a un 2020 segnato dagli eventi: «Ero incinta, così io e Andrea abbiamo deciso di sposarci con una prima cerimonia civile: due firme semplici, tanto per garantirci uno status di famiglia in attesa di tornare in patria per un matrimonio classico con tutti i parenti. Dunque, il 24 gennaio ci siamo recati in ambasciata, io col pancione: sta per iniziare la cerimonia e, all’improvviso, si apre la porta della stanza e vedo entrare mio fratello Francesco con la sua compagna Silvia, volati dall’Italia per farci una sorpresa. E che sorpresa: ho pensato di partorire per l’emozione!».

Invece Asia è poi nata a marzo, bellissima: non ha ancora conosciuto nonni, zii e cugini (un’infinità i parenti che la stanno aspettando) per via del coronavirus. «Resto legatissima alla mia famiglia e quando sono in vena di bilanci metto su un piatto l’entusiasmo per questa mia grande avventura; sull’altro i sacrifici che ha richiesto e anche un po’ di nostalgia, che quando vuole sa come farsi sentire».

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della comunità bergamasca onlus. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per un anno l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

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