«La mia vita in Arabia
da imprenditore cattolico»

L’Arabia Saudita? Davvero un altro mondo: provare per credere. Basta chiederlo a Giovanni Luca Macchi, 46 anni, ingegnere di Bergamo, che ha lavorato dal 2014 al 2017 nel Paese waabita per una multinazionale elettromeccanica. «Un’esperienza imperdibile – spiega –, davvero un mondo rovesciato che non t’aspetti. La religione regola tutti i cicli della vita quotidiana. I colleghi provenienti da ogni parte del mondo prima e i sauditi successivamente, superata una diffidenza iniziale, rispettano chi, come me, su queste questioni non è neutrale: mi sono subito dichiarato cattolico e del resto sono iscritto all’Ucid, Unione cristiana imprenditori dirigenti».

I sauditi apprezzano chi difende i propri valori, mostrandosi peraltro incuriositi del nostro modo di pensare e di vivere. Questo mio approccio s’è rivelato fondamentale nello stabilire buone relazioni». Macchi, sposato e padre di due figlie, coordina le attività di 23 stabilimenti della business unit di riferimento, in giro per il mondo (Cina, India, Turchia, Polonia, Francia, Italia, Russia e Colombia) come responsabile dello sviluppo e dell’organizzazione del lavoro. A Gedda (quasi 5 milioni di abitanti) ha lasciato un ottimo ricordo, gli amici sauditi e i connazionali della piccola comunità italiana riunita attorno al consolato. Benvenuti, dunque, in una realtà dove convivono stili consumistici spinti all’americana e tradizioni di massa rispettate e parzialmente modificate solo nei mesi scorsi.

Un Paese tutto da scoprire, che non sempre si lascia scrutare. Da un po’ di tempo al centro dell’attenzione e delle preoccupazioni internazionali. Il potere in Arabia oggi è in mano al principe Mohammed bin Salman che da un lato ha attenuato l’integralismo waabita, ma dall’altro ha fatto la guerra nello Yemen, ha rilanciato l’offensiva anti sciita e ha compiuto una stretta autoritaria sul piano interno. Il principe è poi nell’occhio del ciclone per l’assassinio di Jamal Khashoggi, il giornalista dell’opposizione ucciso recentemente nel consolato saudita di Istanbul. In sostanza: una modernizzazione dai tratti fast food, ma inserita in una cornice che rimane autoritaria a tutti gli effetti.

Ambientarsi richiede un po’ di tempo. Bisogna abituarsi al clima: 30 gradi in inverno, poi si viaggia sui 45, e attenzione agli scrosci improvvisi. La benzina praticamente non costa: con l’equivalente di 8 euro si fa il pieno del suv. Gli occidentali vivono in villaggi dove sono rispettati i costumi di casa propria. Il resto è fatto di mega centri commerciali e ristoranti di ogni genere e per tutti i gusti. Dice l’ingegnere: «La religione va dichiarata, è scritta sul permesso di soggiorno e non può essere praticata: io seguivo la Messa via Internet e non potevo andare nelle due città sante, La Mecca e Medina». In un contesto inedito la vita ha scansioni e regole particolari. Macchi era direttore operativo delle attività industriali della multinazionale, che aveva acquistato una società del settore petrolifero. Governava 500 persone: «La legge ci impone di assumere il 25-30% dei collaboratori di origine saudita. Il resto sono immigrati dall’Africa, Medio Oriente, India, Bangladesh, Pakistan e Filippine. Avvertivamo una forte responsabilità in quanto sponsor che garantiscono gli immigrati e quindi responsabili delle loro condotta, tanto più che il loro passaporto viene ritirato dall’azienda. Sono lavoratori che chiedono solo di essere rispettati e se ottengono questa condizione, come è avvenuto da noi, danno il meglio di se stessi».

Un operaio immigrato guadagna in media 500 euro (900 il saudita) e può vivere in modo dignitoso, nel senso che riesce a inviare i risparmi a casa: l’azienda, infatti, garantisce alloggi, trasporti e assicurazione sanitaria. Il profilo dei sauditi è, invece, piuttosto alto: «Hanno molto spirito imprenditoriale e tanti laureati hanno alle spalle un master all’estero, specie nel settore finanziario e industriale». Il primo problema affrontato dall’ingegnere, nel quadro della promozione della responsabilità sociale dell’azienda, è stata la questione di genere, perché vige la separazione degli ambienti maschili e femminili: qua e là si liberalizza dove si può, ma l’ambiente industriale è molto tradizionalista. Non sono poche, comunque, le donne in carriera, specie nei settori del fashion, e ci sono pure associazioni del business femminile.

Il dato centrale è che tutta l’attività lavorativa si basa sui tempi della preghiera. I momenti di preghiera, nel corso della giornata, sono cinque e a questi corrispondono analoghe interruzioni lavorative. Negli ambienti aziendali c’è sempre un locale dedicato alla preghiera e alcuni siti hanno piccole moschee all’interno. Anche i negozi osservano una pausa. E soprattutto c’è il Ramadan che dura 40 giorni, periodo del divieto di mangiare e bere dall’alba fino al tramonto. «Questa fase – illustra Macchi – è legata alle fasi lunari e in Arabia viene mantenuta la tradizione che vuole l’apertura del Ramadan stabilita attraverso gli osservatori messi in diverse zone del Paese e che devono vedere la Luna. Ogni anno, quindi, il periodo cambia, mantenendo l’aleatorietà del giorno esatto d’inizio». L’impatto sul mondo produttivo è che nei 40 giorni il lavoro è ridotto a sei ore e tutta l’attività si sposta nelle fasce notturne o nella prima mattinata, quando cioè i lavoratori musulmani possono cibarsi. Significa quindi calibrare la programmazione sui tempi e sui ritmi del Ramadan. Quando tutto si ferma, in un Paese che – come abbiamo visto con gli occhi di Macchi – corre con un’ipermodernità contraddittoria.

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