Il pm chiede il processo
per gli ultrà del tombino

Approderà davanti al giudice preliminare la domenica del tombino, una delle più nere e vergognose vissute dalla parti del Comunale, con ultrà atalantini e milanisti alleati nel tentativo (poi riuscito a suon di disordini) di far sospendere la gara e le immagini tv dei bambini in lacrime sugli spalti che avevano fatto il giro dei tinelli italiani.

La Procura di Bergamo, a due anni e mezzo dai fatti, ha chiuso l'inchiesta ed è intenzionata a chiedere il processo per ventisei tifosi (22 nerazzurri e quattro rossoneri), accusati a vario titolo di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, lancio di oggetti atti a offendere, danneggiamento aggravato e interruzione di partita. È invece caduta l'associazione per delinquere che era stata inizialmente contestata.

I difensori (Giovanni Adami, Federico Riva, Pietro Donadoni, Marco Zambelli, Fabrizio Losito, Luca Salvioni, Marco Saita) hanno ora 20 giorni di tempo per presentare le memorie difensive dei propri assistiti nel tentativo estremo di far ricredere una Procura che, però, pare lanciatissima verso la richiesta di rinvio a giudizio.

Era il pomeriggio dell'11 novembre 2007, da qualche ora anche a Bergamo stava rimbalzando la notizia dell'uccisione di Gabriele Sandri, il supporter laziale colpito dal proiettile sparato da un poliziotto in un autogrill dell'Aretino. Atmosfera livida già prima del fischio d'inizio, con gli scontri che erano puntualmente scoppiati alle 14 in piazzale Goisis fra decine di ultrà atalantini (anche qualche milanista non era rimasto con le mani in mano) e le forze dell'ordine.

Ma non era finita lì. La violenta protesta era proseguita anche all'interno del Comunale, con le tifoserie sempre più nervose impegnate a chiedere la sospensione dell'incontro per rispetto del giovane ucciso. Cori, urla, ma la partita era cominciata lo stesso. E così, in curva Nord la situazione era degenerata. Alcuni teppisti s'erano procurati un tombino, col quale avevano poi cercato di sfondare la barriera in plexiglass che divide gli spalti dal campo, costringendo l'arbitro a sospendere la gara dopo soli 7 minuti.

Era poi iniziata una trattativa tra gli ultrà e i giocatori atalantini: i primi che dai gradoni invocavano l'interruzione del gioco, i secondi che dal campo cercavano di placare gli animi. A identificare i presunti autori dei disordini erano state per lo più le telecamere della polizia, grazie alle quali nei giorni successivi 10 ultrà erano finiti in manette, mentre un'altra ventina era stata denunciata a piede libero.

L'inchiesta s'è così divisa in due tronconi: quello per i tafferugli scoppiati all'esterno, che vede sott'accusa una quindicina di persone, e quello per il danneggiamento e le presunte minacce messe in atto nella Nord al fine di far sospendere la gara, che interessa una decina d'indagati. Tra i personaggi di spicco per i quali la Procura è intenzionata a chiedere il processo c'è Francesco «Baffo» Palafreni, 55 anni, uno dei leader storici della tifoseria nerazzurra, immortalato dalle tv mentre sbraitava poco distante dal punto in cui stavano agendo i teppisti col tombino e ritenuto da chi indaga una delle menti di quel caos organizzato.

Il capo ultrà s'era presentato spontaneamente in questura per chiarire che in quel momento era impegnato a urlare ai giocatori accorsi sotto la Nord i motivi per cui non si doveva continuare a giocare, senza minacciare ritorsioni nel caso la partita fosse proseguita. Versione confermata dal capitano dell'Atalanta Cristiano Doni e dal vice Gianpaolo Bellini (all'epoca i gradi erano invertiti), che erano stati sentiti come testimoni dal pm Domenico Chiaro.

Nel fascicolo d'indagine per i disordini di Atalanta-Milan, oltre a quelli di due altri componenti del direttivo della Curva Nord, è infine finito pure il nome del leader, Claudio «Bocia» Galimberti, che pure non ha partecipato ai tafferugli. Gli inquirenti gli contestano la violazione del Daspo a cui era sottoposto: in mattinata, prima che da quelle parti si scatenasse il finimondo, era infatti stato visto al «Baretto» di viale Giulio Cesare, gestito dalla fidanzata, zona che per un diffidato come lui nelle ore immediatamente precedenti alle partite diventa off-limits. Anche per lui la Procura chiederà il rinvio a giudizio.
 Stefano Serpellini

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