La mamma di Eleonora in lacrime:
«Le scuse di Vicky Vicky un oltraggio»

Al processo che vede imputato l’indiano Vicky Vicky per la morte della dottoressa Eleonora Cantamessa, investita l’8 settembre 2013 mentre soccorreva Baldev Kumar, un indiano vittima di una rissa, mercoledì 25 febbraio è stato il giorno della deposizione di Mariella Armati, mamma di Eleonora, e di quella dell’imputato.

La sua è stata una deposizione straziante, tra le lacrime, mentre Vicky Vicky aveva la testa piegata sul banco. «In un istante è stata sbattuta in un angolo della strada la vita di Eleonora e tutta la mia vita. Una vita che ora non auguro a nessuno». È il senso della dichiarazione della mamma di Eleonora che ha raccontato anche di una lettera di scuse che le inviato Vicky Vicky. «Sì, non ne ho mai parlato perché non ho creduto alla sincerità delle sue scuse. Il modo in cui è stata scritta e la terminologia usata mi fa credere che sia stata suggerita e non sentita. Ecco perché nel mio animo l’ho avvertita come un oltraggio».

«Eleonora - ha raccontato Mariella Armati - ha aiutato moltissime donne indiane ed è morta per aiutare un indiano che è stato ammazzato da un altro indiano. Ditemi voi cosa posso avere nelle mia testa». La mamma ha raccontato quella tragica sera: «Era uscita per un aperitivo con l’ex cognata, lei non aveva molta voglia, ma io le avevo detto “ma sì, vai” e ho sbagliato. Quando non l’ho vista rientrare l’ho chiamata, ma non mi ha risposto, era già morta. Al cellulare del suo amico Luca Bartoli ha risposto un’operatrice del 118 che ci ha informato che c’era stato un incidente molto grave, ma non sapeva nulla di Eleonora. Ci siamo precipitati a Chiuduno, mio marito tremava, mio figlio aveva le mani gelate, nessuno ci diceva nulla, poi il maresciallo del mio paese mi ha fatto un gesto con le mani e allora ho capito».

È stato il turno di Vicky Vicky che ha raccontato di come gli attriti con la fazione opposta, i Ram, durassero da due anni per ragioni di lavoro e denaro e come lui e la sua famiglia fossero già stati minacciati e picchiati: «Quella sera eravamo andati a mangiare in un kebab a Telgate e stavamo rientrando, eravamo con un’Audi e con una Golf che stavo guidando io. C’è stato improvvisamente l’agguato. Una persona è scesa e con una mazza ha iniziato a colpire il cofano della mia auto. Io allora ho innestato la retro e sono scappato. Ma i quattro parenti erano con me in auto mi hanno detto di tornare indietro per aiutare mio fratello. E cosi ho fatto. Ho visto due fari bianchi puntati verso di me. Ho chiuso gli occhi e ho perso il controllo della Golf, sono sicuro di aver schiacciato i pedali, anche quello del freno. Ma andavo molto forte. Non so esattamente come sia andata. Sono sceso dall’auto e non capivo più niente. Ho saputo soltanto alle 8 di due giorni dopo - Vicky Vicky a questo punto del racconto ha singhiozzato - che aveva ucciso mio fratello, che volevo invece salvare, e la dottoressa. Ho ammazzato tutti, sono accusato di omicidio, ma io in vita mia non avevo ammazzato nemmeno una mosca. Non avevo nulla contro di loro».

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