Cellule jihadiste
L’Italia in allerta

Prima di qualsiasi altro discorso, sarà meglio precisare una cosa: i quattro jihadisti kosovari arrestati a Venezia non sono andati nemmeno vicino a conquistarsi il paradiso facendo saltare questo o quell’angolo della meravigliosa città sulla laguna. I nostri servizi segreti e le forze dell’ordine li conoscevano da tempo, li seguivano, li controllavano anche nei periodi di quiete, quindi hanno potuto intervenire al minimo cenno di pericolo. D’altra parte riunirsi a pregare e a immaginare attentati, inneggiare all’Isis, darsi una preparazione paramilitare e girovagare per i social con link ai siti del terrorismo internazionale non è comportamento che passi inosservato, almeno dalle nostre parti.

Questa considerazione serve non a dimenticare subito la minaccia sventata ma a metterla nella giusta cornice. Che comprende diversi elementi degni di nota. Uno di questi è l’efficacia degli apparati italiani di prevenzione e contrasto al terrorismo, e degli strumenti che essi sanno mettere in campo. L’Italia, fin dai tempi di Enrico Mattei e del neoatlantismo, su su fino all’epoca di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha saputo intrecciare, con il Medio Oriente e i suoi problemi, un rapporto originale, dialettico e approfondito. Un capitale di conoscenza, e di conoscenze, di cui la comunità internazionale avrebbe dovuto servirsi meglio e che invece spesso ha respinto, come si è visto di recente con la Libia, buttando a mare occasioni e possibilità. Per fortuna quel capitale non si è disperso attraverso le stagioni diverse della politica interna e oggi produce interessi a nostro favore. Se l’Italia è stata finora risparmiata dagli attentati, lo dobbiamo anche a questo. Per scaramanzia se ne parla poco ma è così.

L’altro elemento da tener presente è, appunto, l’origine balcanica dei jihadisti. Qualche bello spirito di tanto in tanto prova a spiegarci che in Bosnia, Kosovo, Albania e Macedonia va tutto benone. Purtroppo non è così. Tutti sanno che il Kosovo è il Paese europeo con la più alta percentuale di jihadisti per abitante, a dispetto del fatto che sul suo territorio si trovi la più grande base militare Usa all’estero. Che in Bosnia e Macedonia, finanziate dai quattrini elargiti con larghezza dalle petromonarchie del Golfo Persico, si moltiplicano come funghi le moschee di rito wahabita (quello che è religione di Stato in Arabia Saudita), ora impegnate a cambiare anche la natura dell’islam locale, da sempre piuttosto tollerante. Che le rotte del contrabbando balcanico sono quelle seguite dai «foreign fighters» che dalla Siria tornano verso l’Europa, com’era appunto il caso di uno degli arrestati di Venezia. Per fortuna i nostri inquirenti non si accontentano dei luoghi comuni. Sono ormai decine i promotori balcanici dell’Isis, o gli aspiranti al martirio, che sono finiti in manette in Italia in molte regioni, tra cui appunto Piemonte, Lombardia e Veneto.

Meno numerosi, invece, i mediorientali. Il che induce con qualche fondatezza a una conclusione. Essendo l’Italia un Paese di transito, un ponte naturale tra sponda Sud e sponda Nord del Mediterraneo, i gruppi del terrorismo mediorientale (che i nostri «servizi» conoscono bene) non hanno facilità né interesse a colpire da noi. Diverso il discorso per i gruppi balcanici, che non hanno alcun rapporto «storico» con noi e che, sulla spinta del radicalismo crescente nei loro Paesi, potrebbero voler mettere a segno qualche colpo dimostrativo in Europa. Non a caso i nostri inquirenti erano all’erta.

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