Crescita bassa
febbre alta per l’Italia

Sarebbe bello salutare il nuovo anno con ottimismo e speranza, come da brindisi rituale di San Silvestro, ma il 2020 non si presenta con un profilo favorevole. I nuovi venti di guerra con cui è iniziato, dovrebbero almeno farci capire che le priorità vere non sono certe bagatelle da talk show serali, ma ad esempio una maggiore attenzione alla politica estera, Libia in primis. Chi se ne occupa? Di Maio? Dal quadro internazionale, dipende un gran pezzo della nostra economia, già debole di suo.

Prendiamo la produttività, ferma da 20 anni: lì dentro c’è tutto quel che serve. Senza produttività non salgono i salari reali, tra i più bassi in Europa, non cresce la competizione delle nostre imprese, e tutto si scarica sullo Stato, a cui infatti si tende ad aggrapparsi di nuovo. Lo Stato del Monte dei Paschi, dell’Ilva, dell’Alitalia, lo Stato che rivuole le Autostrade come premio per aver ben vigilato su contratti e manutenzioni... Una voglia di Stato che torna a crescere in una classe politica che da un lato pensa di rimediare alla sua incompetenza acquisendo più potere, e dall’altro ha nostalgia di una vecchia idea di sinistra che ha già regalato il Regno Unito alla destra.

Quanto poi al Pil, possiamo anche considerarlo un criterio vecchio rispetto ad altri indici di benessere, ma ha ancora un senso, se non altro per comparazione internazionale. La tabella commentata nei giorni scorsi da Federico Fubini sul Corriere è davvero illuminante. Siamo all’ultimo posto nel recupero della crescita dal momento più profondo della crisi, che per noi è stato il 2013. La derelitta Grecia è cresciuta il doppio, e i Paesi che stanno attorno o sopra il 10%, cioè sopra il recupero di quanto perduto, sono tutti quelli paragonabili al nostro. Lasciamo stare gli Stati Uniti del 22% e la Svezia del 27%, ma la Germania è salita del 16,6% e la Francia dell’11,3%. Noi, ripetiamo, abbiamo ripreso solo il 4% e questo significa tagli ai nostri risparmi e soprattutto ai nostri progetti individuali e famigliari. Per forza: non si può crescere anno su anno solo dello zero virgola (unica eccezione il +1,7 del 2016, ma dato che c’era il governo Renzi, si rischia un’accusa di partigianeria), e anche quest’anno ci viene promesso uno 0,6% che difficilmente raggiungeremo.

Quel che serve è una svolta nelle riforme vere (noi pensiamo invece alla riduzione dei parlamentari...) mentre l’analisi stessa delle priorità é fuorviante. Prendiamo la questione tasse, di cui ogni giorno si lamenta la crescita. Eppure il dato oggettivo è un -0,1% di pressione fiscale, anche al netto dei 23 miliardi di Iva non scattata. La narrazione populista ma anche quella anti populista, terrorizzata dalla polemica, paralizzano la questione. Una rimodulazione dell’Iva non sarebbe stata uno scandalo, ma come fare, in un clima da elezioni sempre imminenti? Arriviamo ad azzardare che non sarebbe stata scandaloso un incremento fiscale, purché compensato da una crescita finalizzata a obiettivi che realmente riguardino le due questioni Pil e produttività. Nella manovra sono per fortuna restate alcune delle norme su industria 4.0, ma sembrano astrazioni da addetti ai lavori.

Emerge quindi solo una voglia di statalizzazione che è tra l’altro la contraddizione non risolta di una eventuale affermazione elettorale del centrodestra. Nel frattempo, il dibattito politico procede a tentoni. Il Pd dovrebbe rinforzare una cultura di governo indebolita da oltre un anno di stasi, ma la sua leadership è condizionata tra le quinte da un Bettini che nessuno conosce, ma che fa dire a Zingaretti che Conte é addirittura un leader del progressismo. Il più grande gruppo parlamentare, dal canto suo, è senza guida e eternamente alle prese con deprimenti questioni di scontrini da rimborsare, ultima spiaggia dell’antipolitica. Come può una grande potenza economica affrontare In questo quadro questioni che fanno tremare i polsi ad un Macron e provocano il declino di una Merkel? Il guaio vero è che mentre per noi la crisi continua, nel resto del mondo sta forse per arrivare la fine di un ciclo positivo. Se la crescita mondiale tornerà in affanno, cosa accadrà ad un’Italia che dall’affanno non riesce mai ad uscire?

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