Disinformazione?
No, c’è dell’altro

Che cos’è l’Unione Europea? Milioni di britannici dopo il voto che ha sancito la Brexit hanno cercato la risposta nel motore di ricerca internet più famoso, Google. Se la domanda venisse oggi rivolta a tutti i cittadini del Vecchio continente, probabilmente la maggioranza risponderebbe con un giudizio negativo, non nel merito delle funzioni svolte dall’Ue come chiede il quesito.

Del resto in questi anni di crisi le riforme più dolorose sono state giustificate con l’affermazione «ce lo chiede l’Europa», anche per quei cambiamenti - è il caso dell’Italia - necessari ad ammodernare il Paese, a prescindere dai dettami di Bruxelles. L’Europa insomma è diventata spesso un capro espiatorio, un bersaglio facile ben al di là dei suoi gravi demeriti ribaditi in questi giorni. Eppure l’Ue è ciò che le consentono di essere i suoi 28 Stati membri: se prevalgono gli egoismi nazionali e la mancanza di visioni ideali, il funzionamento dell’Unione non può che riflettere questo deficit. Ma basterebbe consultare il sito dell’Ue e del Parlamento europeo per sapere che le istituzioni del Vecchio continente sono state il motore di decisioni che hanno migliorato la vita dei cittadini (ad esempio promuovendo liberalizzazioni a tutela dei consumatori).

Giorgio Gori nell’intervento pubblicato ieri sul nostro giornale, partendo proprio dal quesito dei britannici rivolto a Google, ha ragione quindi nel definire la democrazia disinformata una delle malattie più gravi di questa epoca. «L’ignoranza è il terreno di coltura del populismo» scrive ancora il sindaco. Ma qui la lettura del fenomeno intraprende un sentiero stretto e riduttivo, cedendo al rischio di restare in superficie. La conoscenza è fattore decisivo per scelte elettorali consapevoli (e quindi per la nostra libertà dagli imbonitori) ma non è risolvibile nell’istruzione e nell’alfabetizzazione. La conoscenza deriva anche dalle esperienze personali, dal vissuto quotidiano. Come ricorda con la consueta maestria Franco Cattaneo nell’altro editoriale qui a fianco, il mondo dei vinti rimasti ai margini della globalizzazione vive un disagio sociale tramutato in rancore.

E il rancore, insieme alle emozioni, è un potente motore delle scelte elettorali. Tanto più quando in causa sono chiamate le rigide e fredde politiche europee dell’austerità. A questo proposito andrebbe letto il profetico saggio «Geopolitica delle emozioni», pubblicato ormai sei anni fa. Secondo l’autore, Dominique Moïsi, l’umanità sarà sempre più chiamata a fare i conti non solo con le tradizionali frontiere geografiche e le differenti identità culturali, come in passato, ma dovrà comprendere più in profondità l’impatto che sentimenti come la paura, l’umiliazione e la speranza avranno sui conflitti politici, sociali e culturali che condizionano il mondo.

Il populismo torna in voga quando si aprono fratture sociali senza la prospettiva di una risposta o a confronto con una politica che non sa farsi vicina alle ferite dell’umanità ma le giudica stando a distanza. C’è anche un populismo dei colti, che sanno ma non dicono perché la verità non crea consenso immediato. E c’è un populismo di sinistra, dotto: lo abbiamo visto in azione in Italia anche contro l’Europa, ma pure nella versione del «populismo penale» che vorrebbe affidare alle Procure la moralizzazione del Paese, non solo la persecuzione dei reati.

La politica e l’informazione devono andare in profondità ritornando a battere i territori per non farsi trovare più sorprese di fronte alle svolte della storia. Prendendosi cura anche delle emozioni e delle paure.

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