Europa all’attacco
Armistizio Lega-M5S

Quel che si prevedeva è accaduto. La Commissione europea ritiene «giustificata» una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia «per debito eccessivo». Secondo Bruxelles i nostri conti sono fuori dei parametri e delle intese raggiunte l’anno scorso durante la discussione sulla legge di Bilancio: la spesa pubblica è troppo elevata e serve una sostanziale correzione. Il governo ha appena fatto in tempo a trovare un minimo di intesa tra i due partiti «alleati», almeno di facciata, per essere in grado di rispondere con un minimo di credibilità alla Commissione.

La risposta è protocollare: secondo Roma Bruxelles sbaglia i conti, sopravvaluta il disavanzo e l’aumento della spesa pubblica, e sottovaluta gli effetti della manovra 2018-2019 che dovrebbe portare nel secondo semestre ad una maggiore crescita e dunque i conti dovrebbero stabilizzarsi anche al di sotto del parametro contrattato l’anno scorso fermandosi al 2,2 sul Pil.

Certo è che da adesso comincia una dura trattativa: saranno i governi a dire l’ultima parola dopo il parere della Commissione. È difficile che ci risparmino la sanzione di una procedura di infrazione – che significa un controllo molto stretto sulla nostra testa – a meno che da qui al momento decisivo non riusciamo a dimostrare che quel che è scritto nel documento di ieri di Palazzo Chigi è realizzabile nei fatti e non solo a parole. C’è chi spera nella clemenza della Francia che potrebbe anch’essa finire nel mirino di Bruxelles e quindi aiuterebbe noi a salvarci per salvare se stessa. Altri invece pensano che al termine di un ciclo, quello interrotto dalle elezioni europee del 26 maggio, sarebbe sbagliato cominciare il nuovo colpendo un Paese come l’Italia, che è pur sempre la seconda manifattura della Ue.

Il problema politico è però quasi più complicato della questione economica. Giacché, come spesso abbiamo sostenuto da queste colonne, per affrontare la prossima manovra, respingere la procedura, rassicurare gli investitori, trovare i soldi per non aumentare l’Iva, sostenere la debolissima fase di crescita del Pil e contemporaneamente mettere in pratica le costose promesse del governo (che avrebbe danneggiato l’economia italiana, secondo il vicepresidente Dombroskis, indifferente all’evidente ingerenza nella politica interna di un altro Paese) serve comunque un governo che stia in piedi, almeno formalmente unito, e un presidente del Consiglio che mostri di restare al timone con accanto un ministro del Tesoro in grado di interloquire con gli altri suoi colleghi senza sentirsi dire che tanto sta per lasciare la poltrona.

È questa consapevolezza che ha fatto maturare l’improvviso «armistizio» tra Lega e M5S quando tutto sembrava portare alla caduta del governo e a nuove elezioni politiche in settembre. In questo ha sicuramente agito la moral suasion del Quirinale e non hanno certo fatto mancare la loro parola i due collaboratori più stretti dei vicepremier, Giorgetti per Salvini e Spadafora per Di Maio. Bisogna cercare di arrivare all’autunno con la manovra fatta e senza troppe perdite: il senso di responsabilità deve prevalere sugli interessi di bottega e lo ha chiesto Mattarella con accenti estremamente chiari e convincenti.

Naturalmente, data la fluidità della situazione e la precarietà degli equilibri, è sempre possibile che la situazione sfugga di mano ai suoi protagonisti: basta un nonnulla per riportare le baionette innestate sui fucili. Ma intorno al governo si sta formando una sorta di trincea di sacchi di sabbia che conferisce a Giuseppe Conte un ruolo che finora non ha mai avuto, molto simile a quello di un presidente del Consiglio non «di facciata».

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