Gli uomini di pace
in tempo di guerra

La pace non è una condizione politica e sociale data per sempre. Va costruita e difesa. Ed è soprattutto l’esito di una posizione personale di disponibilità a riconoscere e a rispettare l’altro. Lo sappiamo bene noi europei (ma forse lo abbiamo dimenticato). Nell’albero genealogico delle nostre famiglie ci sono avi che hanno attraversato ben due conflitti mondiali.

I racconti della guerra dei nostri nonni ci hanno tramandato il dolore e la fame, lo smarrimento e la paura di chi ha vissuto quelle epoche nefaste. Ma anche storie di ordinario coraggio, di chi si è opposto alla barbarie. Il desiderio di un’Europa unita, nella quale gli ex nemici si riconoscessero come vicini in grado di collaborare e di condividere responsabilità e destini, è nato nei cuori e nelle menti della generazione (non solo politica) sopravvissuta al secondo conflitto mondiale. E forse non è un caso che quel disegno rischia di implodere proprio oggi, in tempi ignari del passato e delle radici del nostro precario benessere.

«Credo nella pace perché ho visto la guerra»: l’affermazione era riportata sulle magliette dei ragazzi cristiani palestinesi alla Giornata mondiale della gioventù a Toronto, nel 2002. Il premio Nobel per la pace Shimon Peres, morto l’altra notte a 93 anni, aveva attraversato la parabola della storia ebraica dalla Shoah al riscatto della nascita dello Stato d’Israele, fino a diventarne il presidente. Nato in Polonia con il nome di Szymon Perski, a 9 anni emigrò in Palestina con la famiglia. Nel 1932, ancora ragazzino, partecipò alla fondazione di un kibbutz, impegno che aveva già una dimensione politica: è in questa sfera e con incarichi diversi che trascorrerà 74 delle sue 93 primavere.

A partire dagli anni Settanta, Peres è stato uno dei promotori della colonizzazione ebraica dei Territori occupati, ancora oggi principale pietra d’inciampo per la nascita di uno Stato palestinese degno di questo nome, cioè con una continuità territoriale. Ma dopo vent’anni se ne pentì e la conversione lo portò ad avviare in sordina il percorso che avrebbe portato al processo di pace di Oslo con i palestinesi. Informò l’amico rivale (nel partito laburista) Yizhak Rabin solo in prossimità dell’accordo siglato nel 1993. La storia avrebbe potuto essere diversa se Rabin a Tel Aviv la sera del 4 novembre 1995, alle 21,30 e al termine di una manifestazione a sostegno proprio di quell’accordo, non fosse stato ucciso a Tel Aviv dal terrorista Yigal Amir, cresciuto nell’alveo di quel fondamentalismo ebraico che oggi tiene in scacco la destra israeliana.

Il percorso degli uomini vissuti nella guerra non ha sempre come esito l’approdo nei territori faticosi della costruzione della pace. Ma la conversione di Peres poggiava su una convinzione esistenziale: «Quando hai due alternative - disse in un’intervista - la prima cosa che devi fare è cercare la terza, alla quale non avevi pensato e che non esiste». La creatività come dote anche in politica, per uscire dal guado. Peres capì che condizionare il processo di pace alle minacce del mare d’odio in cui Israele è circondata e al terrorismo palestinese era una debolezza che avrebbe relegato il suo popolo, in forza di un esercito potentissimo, a convivere con un conflitto «a bassa intensità» ma non alla pace. Una presa d’atto ancora attuale.

Peres non era certo un imbelle (fu suo il progetto che portò Israele a dotarsi di un’arma atomica) ma aveva l’occhio lungo del visionario, la capacità di indicare la rotta, doti che differenziano la mediocrità di chi si limita a gestire l’esistente dal vero condottiero.Un uomo più attento a cercare ciò che unisce invece che alle divisioni. Fino all’ultimo si è speso per elaborare progetti di pace innovativi e praticabili tenendo aperte le comunicazioni con i palestinesi e cercando di smussare le intransigenze dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Una posizione scomoda e da irregolare, non sempre compresa dal suo popolo che oggi si è rassegnato alla politica del fatto compiuto e dello status quo.

Ma la biografia di Peres dice qualcosa anche a noi europei. Dalle crisi non si esce ripercorrendo vecchie strade già sconfitte dalla storia. Servono le doti dei lungimiranti: intelligenza (anche di cambiare idea) e cuore. Oltre al coraggio di osare per andare contro la corrente. Winston Churchill diceva che «il politico diventa uomo di Stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni». Shimon Peres era uno statista.

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